Il consumo veicolo di consenso
Chi ha avuto la pazienza e la bontà di leggere attentamente quanto ho scritto nel saggio sulla piccola e media borghesia italiana dopo l’Unità d’Italia, si sarà reso conto che più che parlare delle circostanze che portarono il fascismo al potere, ho tentato di individuare e seguire tendenze di “lunga durata”, quelle che hanno permesso, nell’arco di tempo compreso tra l’epoca risorgimentale e l’avvento del fascismo, la coesione sociale dell’Italia. Nel secondo dopoguerra, il processo di integrazione del sistema viene garantito dall’espansione del mercato, che negli anni del cosiddetto “boom economico, conosce una fase di affermazione e di forte assestamento. La sensazione di benessere, che era mancata nella prima fase del processo di unificazione dell’Italia, comincia a diffondersi in tutti i ceti sociali, sebbene in misura diversa. Il mercato rappresenta la forma di integrazione come la politica e l’ideologia (o una loro forma combinata) lo sono stato in altre epoche. Ciò non vuol dire che, una volta affermatosi il mercato come forma di integrazione della società, le altre due istanze scompaiano completamente, vuol dire che non hanno più quella funzione prevalente che un tempo incarnavano. Praticamente, né la politica né l’ideologia sono più i “garanti” della coesione sociale.
Entrambe, si potrebbe dire, rispetto al mercato svolgono una funzione “gregaria”. La politica, in particolare, svolge il compito, quando gode di un forte consenso, di regolatore del mercato, sia per quanto riguarda la politica contrattuale che quella fiscale. Tuttavia, la forte rapidità dell’affermazione del mercato ha accentuato il ruolo della ideologia, perché quella rapidità ha impedito una fase graduale di assestamento. L’Italia, fatte le dovute differenze, si è trovata nelle stesse condizioni dell’Età giolittiana, ossia della prima industrializzazione del paese. Superata questa fase di grandi rivolgimenti sociali, il paese, intorno, agli anni Ottanta ha conosciuto la vera “società dei consumi”: tutte le resistenze legate alle società tradizionali e che ancora impedivano l’affermazione piena dei consumi vennero spazzate vie. Il consumo, espressione finale del mercato, s’impone come forma reale di integrazione sociale. In altri termini, la filosofia di vita che s’impone in ogni strato sociale è improntata alle forme di consumo. Da questo punto di vista, la sub-cultura di sinistra, che continuava a ispirarsi ad una tradizione ideologica “comunista”, e quella cattolica, fondata sui valori tradizionali della famiglia e del risparmio, si trovavano a disagio di fronte a questi nuovi stili di vita che la società dei consumi imponeva. In particolare, l’ideologia comunista aveva nella produzione, ossia nel mondo del lavoro, la sua centralità, mentre quella cattolica l’aveva nell’etica del risparmio (pensiamo a tutte le “casse rurali” nate all’inizio del XX secolo). Il “consumo” da queste ideologie era ancora percepito, per usare l’espressione del sociologo americano Thorstein Veblen, come “uno spreco vistoso”, quando, invece, da ciascun ceto il consumo cominciava ad essere percepito come momento di una vera e propria “promozione” sociale. La crisi della sinistra e delle aree di ispirazione cattolica coincide, in Italia, verso la metà di quegli anni, e giunge a compimento nella metà degli anni Novanta, quando ormai si è avviato un processo di rinnovamento non ancora conclusosi. L’incontro che s’era avuto intorno alla metà degli anni Settanta, tra le due tradizioni, finisce tragicamente con l’assassinio di Aldo Moro. Dopo quella tragica esperienza le forze politiche nuove che emergono sono proprie quelle che non hanno alcuna remora nei confronti dei consumi. Possiamo in effetti parlare a proposito di questa fase storica di una vera e propria “americanizzazione” della società italiana. Ancora una volta, mediante i consumi, avveniva in Italia un processo storico che Gramsci avrebbe definito di “rivoluzione passiva”. A farsi il maggior interprete di questa “rivoluzione passiva” è stato, intorno alla metà degli anni Novanta, in piena crisi del sistema politico, il magnate delle telecomunicazioni Silvio Berlusconi: non è un caso che negli anni Ottanta siano state proprie le sue tv commerciali a contribuire all’americanizzazione della società italiana, ossia al "consumo vistoso".
La forza politica che nel giro di poco tempo riuscì a mettere in campo aveva come bersaglio politico-ideologico proprio quell’aggregato di ideologie che aveva trovato nell’esperienza del “compromesso storico” la sua sintesi, e che egli stesso percepiva come un coagulo di forze che s’opponeva all’espansione vistoso del consumo, chiave del suo successo economico. Contemporaneamente il processo di globalizzazione fece emergere al Nord del paese una forza localistica, che prese il nome di Lega Lombarda, e che divenne espressione di quei ceti sociali ed imprenditoriali che più temevano gli effetti provocati dalla globalizzazione nel tessuto sociale: la forte competitività internazionale e l’immigrazione. Questa forza ha trovato la sua area di consenso nella “critica” al processo risorgimentale: l’unificazione del paese viene interpretata come un processo forzato e imposto dall’alto delle classi dirigenti del tempo.
Si capisce che alle piccole imprese dei “distretti industriali” della “Terza Italia”, secondo la definizione del sociologo Bagnasco, il mercato interno interessa sempre di meno; la vera sfida è rappresentata dai mercati esteri. I problemi del Mezzogiorno d’Italia e la crisi della grande impresa fondata sul modello fordista e posfordista vengono visti sempre più come ostacoli al processo di innovazione del paese, che, nella loro ottica, fa perdere punti di competitività alle esportazioni delle piccole e medie imprese del Nord-Est. Infatti, questo movimento politico comincia ad espandersi in altre aree del paese man mano che vengono colpite dalla crisi internazionale. Crescita dell’esportazione e crescita della Lega sono due fenomeni strettamente intrecciati. Possiamo dire che l’alleanza tra chi vuole una forte società dei consumi e chi mira a una forte espansione dei propri prodotti all’estero si salda proprio sulla base di questi reciproci interessi. Quindi, le due forze politiche che oggi guidano il paese sono entrambe espressioni dell’“ideologia del mercato”, quello berlusconiano sul lato deiconsumi, il secondo su quello della distribuzione. Si comprende che ciò che resta fuori da questa lotta politica sono quelle forze, soprattutto di sinistra, che invece hanno tentato di interpretare ed esprimere le istanze suscitate dalla produzione. Nello stesso momento in cui la produzione, in virtù del processo di globalizzazione, viene dislocata altrove, perdendo così la sua centralità all’interno del mercato, anche quelle forze che si richiamano ad essa cominciano ad essere sempre percepite sempre più come marginali.
Chi ha avuto la pazienza e la bontà di leggere attentamente quanto ho scritto nel saggio sulla piccola e media borghesia italiana dopo l’Unità d’Italia, si sarà reso conto che più che parlare delle circostanze che portarono il fascismo al potere, ho tentato di individuare e seguire tendenze di “lunga durata”, quelle che hanno permesso, nell’arco di tempo compreso tra l’epoca risorgimentale e l’avvento del fascismo, la coesione sociale dell’Italia. Nel secondo dopoguerra, il processo di integrazione del sistema viene garantito dall’espansione del mercato, che negli anni del cosiddetto “boom economico, conosce una fase di affermazione e di forte assestamento. La sensazione di benessere, che era mancata nella prima fase del processo di unificazione dell’Italia, comincia a diffondersi in tutti i ceti sociali, sebbene in misura diversa. Il mercato rappresenta la forma di integrazione come la politica e l’ideologia (o una loro forma combinata) lo sono stato in altre epoche. Ciò non vuol dire che, una volta affermatosi il mercato come forma di integrazione della società, le altre due istanze scompaiano completamente, vuol dire che non hanno più quella funzione prevalente che un tempo incarnavano. Praticamente, né la politica né l’ideologia sono più i “garanti” della coesione sociale.
Entrambe, si potrebbe dire, rispetto al mercato svolgono una funzione “gregaria”. La politica, in particolare, svolge il compito, quando gode di un forte consenso, di regolatore del mercato, sia per quanto riguarda la politica contrattuale che quella fiscale. Tuttavia, la forte rapidità dell’affermazione del mercato ha accentuato il ruolo della ideologia, perché quella rapidità ha impedito una fase graduale di assestamento. L’Italia, fatte le dovute differenze, si è trovata nelle stesse condizioni dell’Età giolittiana, ossia della prima industrializzazione del paese. Superata questa fase di grandi rivolgimenti sociali, il paese, intorno, agli anni Ottanta ha conosciuto la vera “società dei consumi”: tutte le resistenze legate alle società tradizionali e che ancora impedivano l’affermazione piena dei consumi vennero spazzate vie. Il consumo, espressione finale del mercato, s’impone come forma reale di integrazione sociale. In altri termini, la filosofia di vita che s’impone in ogni strato sociale è improntata alle forme di consumo. Da questo punto di vista, la sub-cultura di sinistra, che continuava a ispirarsi ad una tradizione ideologica “comunista”, e quella cattolica, fondata sui valori tradizionali della famiglia e del risparmio, si trovavano a disagio di fronte a questi nuovi stili di vita che la società dei consumi imponeva. In particolare, l’ideologia comunista aveva nella produzione, ossia nel mondo del lavoro, la sua centralità, mentre quella cattolica l’aveva nell’etica del risparmio (pensiamo a tutte le “casse rurali” nate all’inizio del XX secolo). Il “consumo” da queste ideologie era ancora percepito, per usare l’espressione del sociologo americano Thorstein Veblen, come “uno spreco vistoso”, quando, invece, da ciascun ceto il consumo cominciava ad essere percepito come momento di una vera e propria “promozione” sociale. La crisi della sinistra e delle aree di ispirazione cattolica coincide, in Italia, verso la metà di quegli anni, e giunge a compimento nella metà degli anni Novanta, quando ormai si è avviato un processo di rinnovamento non ancora conclusosi. L’incontro che s’era avuto intorno alla metà degli anni Settanta, tra le due tradizioni, finisce tragicamente con l’assassinio di Aldo Moro. Dopo quella tragica esperienza le forze politiche nuove che emergono sono proprie quelle che non hanno alcuna remora nei confronti dei consumi. Possiamo in effetti parlare a proposito di questa fase storica di una vera e propria “americanizzazione” della società italiana. Ancora una volta, mediante i consumi, avveniva in Italia un processo storico che Gramsci avrebbe definito di “rivoluzione passiva”. A farsi il maggior interprete di questa “rivoluzione passiva” è stato, intorno alla metà degli anni Novanta, in piena crisi del sistema politico, il magnate delle telecomunicazioni Silvio Berlusconi: non è un caso che negli anni Ottanta siano state proprie le sue tv commerciali a contribuire all’americanizzazione della società italiana, ossia al "consumo vistoso".
La forza politica che nel giro di poco tempo riuscì a mettere in campo aveva come bersaglio politico-ideologico proprio quell’aggregato di ideologie che aveva trovato nell’esperienza del “compromesso storico” la sua sintesi, e che egli stesso percepiva come un coagulo di forze che s’opponeva all’espansione vistoso del consumo, chiave del suo successo economico. Contemporaneamente il processo di globalizzazione fece emergere al Nord del paese una forza localistica, che prese il nome di Lega Lombarda, e che divenne espressione di quei ceti sociali ed imprenditoriali che più temevano gli effetti provocati dalla globalizzazione nel tessuto sociale: la forte competitività internazionale e l’immigrazione. Questa forza ha trovato la sua area di consenso nella “critica” al processo risorgimentale: l’unificazione del paese viene interpretata come un processo forzato e imposto dall’alto delle classi dirigenti del tempo.
Si capisce che alle piccole imprese dei “distretti industriali” della “Terza Italia”, secondo la definizione del sociologo Bagnasco, il mercato interno interessa sempre di meno; la vera sfida è rappresentata dai mercati esteri. I problemi del Mezzogiorno d’Italia e la crisi della grande impresa fondata sul modello fordista e posfordista vengono visti sempre più come ostacoli al processo di innovazione del paese, che, nella loro ottica, fa perdere punti di competitività alle esportazioni delle piccole e medie imprese del Nord-Est. Infatti, questo movimento politico comincia ad espandersi in altre aree del paese man mano che vengono colpite dalla crisi internazionale. Crescita dell’esportazione e crescita della Lega sono due fenomeni strettamente intrecciati. Possiamo dire che l’alleanza tra chi vuole una forte società dei consumi e chi mira a una forte espansione dei propri prodotti all’estero si salda proprio sulla base di questi reciproci interessi. Quindi, le due forze politiche che oggi guidano il paese sono entrambe espressioni dell’“ideologia del mercato”, quello berlusconiano sul lato deiconsumi, il secondo su quello della distribuzione. Si comprende che ciò che resta fuori da questa lotta politica sono quelle forze, soprattutto di sinistra, che invece hanno tentato di interpretare ed esprimere le istanze suscitate dalla produzione. Nello stesso momento in cui la produzione, in virtù del processo di globalizzazione, viene dislocata altrove, perdendo così la sua centralità all’interno del mercato, anche quelle forze che si richiamano ad essa cominciano ad essere sempre percepite sempre più come marginali.
Credere, consumare, comunicare
In un lontano convegno di Cagliari del 1967 sul tema Gramsci e la cultura contemporanea, il sociologo Alessandro Pizzorno ricordava come la nozione di “crisi organica” fosse l’elemento più interessante della teoria politica di Gramsci. Si diceva sorpreso che non fosse stata fino a quel momento oggetto di approfondimento nella sterminata letteratura gramsciana. Una crisi organica può dar luogo a una trasformazione "attiva" o progressiva in grado di far avanzare tutti i ceti sociali, oppure a una trasformazione passiva, nel corso della quale assistiamo a un arretramento complessivo dei ceti più deboli della società e a un consolidamento di posizione di pochi ceti privilegiati.
Le crisi si possono risolvere mediante una svolta autoritaria, e in tal caso avremo:
1) una trasformazione del ceto politico e burocratico, che oltre ad esercitare un dominio politico eserciterà anche una direzione ideologica (un’“egemonia”), la qual cosa, anche se risulta essere un’emanazione organica del blocco sociale dominante, costituisce comunque una novità rispetto al passato; praticamente dominio coercitivo + consenso delle masse.
oppure in
2) un rafforzamento del dominio politico, senza direzione ideologica (cioè senza “egemonia”). Dominio coercitivo senza consenso delle masse.
Per Gramsci, soltanto la prima delle due soluzioni costituisce una forma di “rivoluzione passiva”, nella quale la priorità è data alla combinazione dell’elemento politico e di quello ideologico. Nell’altro caso, invece, avremo soltanto una soluzione politico-militare della crisi, che sfocia in un regime autoritario che non si preoccupa affatto di costruire una base di consenso. Le due forme di soluzioni autoritarie possiamo entrambe qualificarle come “reazionarie”, se con questo termine si vuole indicare un’involuzione rispetto alle conquiste sociali realizzate al presente. Tuttavia, mentre la prima aspira a creare una base di consenso, la seconda non si preoccupa affatto di avere un consenso.
Una “crisi organica” può anche essere risolta attraverso una ristrutturazione delle forze di produzione, che, sebbene lasci inalterati i rapporti di produzione, tuttavia ne altera la composizione di classe, rivalutando le classi produttive a discapito di quelle parassitarie. Anche in questo caso avremo una forma di “rivoluzione passiva”, con la differenza rispetto all’altra che l’elemento di novità non è costituito dal livello politico-ideologico, bensì da quello economico: la rivoluzione passiva di carattere politico-ideologico punta sulla rivalutazione della classe media e “parassitaria”, la seconda forma, invece, di carattere economico, punta sulla composizione delle classi produttive. Nel nostro secolo, le due forme di “rivoluzioni passive” che si sono contemporaneamente verificate sotto gli occhi di Gramsci sono state rispettivamente il “fascismo” e il “fordismo”.
Ora, osservando la storia attuale, è possibile riadattare il linguaggio gramsciano alla situazione politica come si è venuta configurando negli ultimi quindici anni, e parlare del “berlusconismo” come una forma contemporanea di “trasformazione passiva” della società. Possiamo qualificare il "berlusconismo" come una combinazione delle due forme di rivoluzione passiva individuate da Gramsci, ossia una combinazione di elementi autoritari e dirigistici (tipici del fascismo) con elementi "consumistici" e "pragmatici" tipici del "fordismo". Possiamo combinare questi tratti in questo modo:
1) la concentrazione del potere economico, mediatico e politico; come nel modello fordista, la fabbrica diventa il luogo di integrazione totale del lavoro, così il berlusconismo diventa un modo per integrare il cittadino in ogni suo momento della attività quotidiana (come consumatore di prodotti, come telespettatore, come elettore);
2) una rappresentazione trasversale di ceti sociali, che dai cosiddetti ceti “marginali” (casalinghe, pensionati, disoccupati) arriva fino ai ceti più produttivi (il cosiddetto popolo delle partite iva). Questo elemento lo accomuna più al fascismo che al fordismo: la prossima mossa di chiamare il proprio partito "Italia" va in questa direzione. D'ora in avanti chi è antiberlusconiano sarà un antitaliano per definizione, così come sotto il fascismo chi era anti- era di conseguenza antitaliano, antipatriottico.
3) una ideologia che ha nel "consumo" la sua forza trainante e consensuale. Questo elemento si differenzia dal fordismo in quanto è privo di una visione keynesiana dell'economia. Il fordismo puntava a un aumento della domanda aggregata dei consumi attraverso un aumento dei redditi. Tuttavia, possiamo notare come il berlusconismo abbia finito con l'equiparare l'elettore al consumatore.
4) un visione autoritaria e dirigistica (o aziendalistica) della politica e della società. Qui la combinazione tra fascismo e fordismo diventa più forte. E abbiamo cosi trovato la sintesi delle tre "C":Credere, Consumare, Comunicare!
5) un approccio "acritico" e superficiale alla complessità dei problemi (risolto spesso in slogans ripetitivi e vuoti); questo elemento a dire il vero proviene più dal mondo della "pubblicità", da cui il berlusconismo trae la sua origine; diciamo che è un elemento autoctono del berlusconismo.
6) una esaltazione degli egoismi e degli interessi individuali a discapito degli interessi collettivi e solidali. Questo elemento proviene da una lettura distorta del "liberismo" economico, un altro tratto originario.
Finora gli studi su questo fenomeno si sono concentrati più sul “personaggio” politico, e hanno trascurato di mettere in rilievo i tratti che contraddistinguono questo fenomeno politico-sociale. Il berlusconismo infatti non si racchiude soltanto in una formula politica, ma abbraccia un'intera concezione del vivere sociale. Se non si comprende questa duplice funzione non si capirà neanche il potere d'attrazione che questo fenomeno ha saputo esercitare sia sul corpo elettorale quanto sui stessi ceti politici, e quindi non si comprende neanche la ragione del perché tanti ceti sociali l’hanno sostenuto negli ultimi quindici anni. Il fenomeno, a mio parere, ancora non viene preso sul serio, e ci si limita ad analizzare il "personaggio" e non il fenomeno. Forse perché siamo ancora troppo coinvolti per analizzarlo con il giusto distacco. Allora ci si perde nei dettagli, e non si guarda alla sostanza delle cose. E, purtroppo, non ci rende conto che un tipo di analisi del genere (focalizzata sul personaggio) è perfettamente e paradossalmente funzionale propria alla sua ideologia.
Mi sembra che tutte le riflessioni che si hanno sul fenomeno siano focalizzate soprattutto sui meccanismi che spiegano il suo consenso, trascurando le reali forze che lo hanno di fatto realizzato. In un altro saggio (Il consumo come veicolo di consenso) ho cercato di mettere in evidenza quale fosse la chiave del successo politico della proposta berlusconiana. In un paese in cui la domanda di consumo è radicalmente cambiata e trasformata, mi sembrava evidente che a questa domanda fosse più capace di rispondere (non di dico di soddisfare) uno stile di vita consumistico, così come veniva profilandosi nella ideologia berlusconiana, anziché una qualsiasi altra proposta politica. Anzitutto, perché senza dubbio riusciva a incarnarla e ad esprimerla meglio rispetto ad ogni altra. E poi perché era più organica allo stile di vita propinato dalle tv commerciali. Proprio in ragione di questa ideologia si giustifica e si legittima la crepa sociale che divide il tessuto sociale tra i grandi detentori di ricchezza e il resto del paese. Il berlusconismo come “trasformazione passiva” ha tentato, e finora bisogna dire che c’è anche riuscito, a saldare e a tenere insieme il forte divario sociale che si è creato nel paese tra i grandi detentori di ricchezza e i ceti più poveri ed emarginati. Questa saldatura non è dovuta, come talvolta si crede, al “miraggio di ricchezza” che il berlusconismo ha saputo suscitare, in alcune fasi della sua storia, ma al “miraggio di ’immobilismo” che ha saputo realmente concretizzare, a quella nuova forma di gattopardismo, insito in ogni italiano, di credere che affinché tutto cambi, nulla deve cambiare. Ora però che questo immobilismo sociale sta producendo i suoi effetti negativi, da più parti si prende consapevolezza dei danni sociali che il berlusconismo ha prodotto nel paese. Come stiamo verificando proprio in questi mesi, il berlusconismo è entrato in crisi proprio nel momento in cui la domanda di consumi è cominciata a calare. Tuttavia, aggiungiamo che il "fenomeno" non è destinato a scomparire nel momento in cui il suo "ispiratore" non farà più politica, ma resterà a lungo nelle coscienze degli italiani. La sua trasformazione passiva incederà a fondo nel tessuto sociale italiano. E credo che alla fine sia questo il danno maggiore che farà alla società nel suo complesso.
Le due trasformazioni della società
In un lontano convegno di Cagliari del 1967 sul tema Gramsci e la cultura contemporanea, il sociologo Alessandro Pizzorno ricordava come la nozione di “crisi organica” fosse l’elemento più interessante della teoria politica di Gramsci. Si diceva sorpreso che non fosse stata fino a quel momento oggetto di approfondimento nella sterminata letteratura gramsciana. Una crisi organica può dar luogo a una trasformazione "attiva" o progressiva in grado di far avanzare tutti i ceti sociali, oppure a una trasformazione passiva, nel corso della quale assistiamo a un arretramento complessivo dei ceti più deboli della società e a un consolidamento di posizione di pochi ceti privilegiati.
Le crisi si possono risolvere mediante una svolta autoritaria, e in tal caso avremo:
1) una trasformazione del ceto politico e burocratico, che oltre ad esercitare un dominio politico eserciterà anche una direzione ideologica (un’“egemonia”), la qual cosa, anche se risulta essere un’emanazione organica del blocco sociale dominante, costituisce comunque una novità rispetto al passato; praticamente dominio coercitivo + consenso delle masse.
oppure in
2) un rafforzamento del dominio politico, senza direzione ideologica (cioè senza “egemonia”). Dominio coercitivo senza consenso delle masse.
Per Gramsci, soltanto la prima delle due soluzioni costituisce una forma di “rivoluzione passiva”, nella quale la priorità è data alla combinazione dell’elemento politico e di quello ideologico. Nell’altro caso, invece, avremo soltanto una soluzione politico-militare della crisi, che sfocia in un regime autoritario che non si preoccupa affatto di costruire una base di consenso. Le due forme di soluzioni autoritarie possiamo entrambe qualificarle come “reazionarie”, se con questo termine si vuole indicare un’involuzione rispetto alle conquiste sociali realizzate al presente. Tuttavia, mentre la prima aspira a creare una base di consenso, la seconda non si preoccupa affatto di avere un consenso.
Una “crisi organica” può anche essere risolta attraverso una ristrutturazione delle forze di produzione, che, sebbene lasci inalterati i rapporti di produzione, tuttavia ne altera la composizione di classe, rivalutando le classi produttive a discapito di quelle parassitarie. Anche in questo caso avremo una forma di “rivoluzione passiva”, con la differenza rispetto all’altra che l’elemento di novità non è costituito dal livello politico-ideologico, bensì da quello economico: la rivoluzione passiva di carattere politico-ideologico punta sulla rivalutazione della classe media e “parassitaria”, la seconda forma, invece, di carattere economico, punta sulla composizione delle classi produttive. Nel nostro secolo, le due forme di “rivoluzioni passive” che si sono contemporaneamente verificate sotto gli occhi di Gramsci sono state rispettivamente il “fascismo” e il “fordismo”.
Ora, osservando la storia attuale, è possibile riadattare il linguaggio gramsciano alla situazione politica come si è venuta configurando negli ultimi quindici anni, e parlare del “berlusconismo” come una forma contemporanea di “trasformazione passiva” della società. Possiamo qualificare il "berlusconismo" come una combinazione delle due forme di rivoluzione passiva individuate da Gramsci, ossia una combinazione di elementi autoritari e dirigistici (tipici del fascismo) con elementi "consumistici" e "pragmatici" tipici del "fordismo". Possiamo combinare questi tratti in questo modo:
1) la concentrazione del potere economico, mediatico e politico; come nel modello fordista, la fabbrica diventa il luogo di integrazione totale del lavoro, così il berlusconismo diventa un modo per integrare il cittadino in ogni suo momento della attività quotidiana (come consumatore di prodotti, come telespettatore, come elettore);
2) una rappresentazione trasversale di ceti sociali, che dai cosiddetti ceti “marginali” (casalinghe, pensionati, disoccupati) arriva fino ai ceti più produttivi (il cosiddetto popolo delle partite iva). Questo elemento lo accomuna più al fascismo che al fordismo: la prossima mossa di chiamare il proprio partito "Italia" va in questa direzione. D'ora in avanti chi è antiberlusconiano sarà un antitaliano per definizione, così come sotto il fascismo chi era anti- era di conseguenza antitaliano, antipatriottico.
3) una ideologia che ha nel "consumo" la sua forza trainante e consensuale. Questo elemento si differenzia dal fordismo in quanto è privo di una visione keynesiana dell'economia. Il fordismo puntava a un aumento della domanda aggregata dei consumi attraverso un aumento dei redditi. Tuttavia, possiamo notare come il berlusconismo abbia finito con l'equiparare l'elettore al consumatore.
4) un visione autoritaria e dirigistica (o aziendalistica) della politica e della società. Qui la combinazione tra fascismo e fordismo diventa più forte. E abbiamo cosi trovato la sintesi delle tre "C":Credere, Consumare, Comunicare!
5) un approccio "acritico" e superficiale alla complessità dei problemi (risolto spesso in slogans ripetitivi e vuoti); questo elemento a dire il vero proviene più dal mondo della "pubblicità", da cui il berlusconismo trae la sua origine; diciamo che è un elemento autoctono del berlusconismo.
6) una esaltazione degli egoismi e degli interessi individuali a discapito degli interessi collettivi e solidali. Questo elemento proviene da una lettura distorta del "liberismo" economico, un altro tratto originario.
Finora gli studi su questo fenomeno si sono concentrati più sul “personaggio” politico, e hanno trascurato di mettere in rilievo i tratti che contraddistinguono questo fenomeno politico-sociale. Il berlusconismo infatti non si racchiude soltanto in una formula politica, ma abbraccia un'intera concezione del vivere sociale. Se non si comprende questa duplice funzione non si capirà neanche il potere d'attrazione che questo fenomeno ha saputo esercitare sia sul corpo elettorale quanto sui stessi ceti politici, e quindi non si comprende neanche la ragione del perché tanti ceti sociali l’hanno sostenuto negli ultimi quindici anni. Il fenomeno, a mio parere, ancora non viene preso sul serio, e ci si limita ad analizzare il "personaggio" e non il fenomeno. Forse perché siamo ancora troppo coinvolti per analizzarlo con il giusto distacco. Allora ci si perde nei dettagli, e non si guarda alla sostanza delle cose. E, purtroppo, non ci rende conto che un tipo di analisi del genere (focalizzata sul personaggio) è perfettamente e paradossalmente funzionale propria alla sua ideologia.
Mi sembra che tutte le riflessioni che si hanno sul fenomeno siano focalizzate soprattutto sui meccanismi che spiegano il suo consenso, trascurando le reali forze che lo hanno di fatto realizzato. In un altro saggio (Il consumo come veicolo di consenso) ho cercato di mettere in evidenza quale fosse la chiave del successo politico della proposta berlusconiana. In un paese in cui la domanda di consumo è radicalmente cambiata e trasformata, mi sembrava evidente che a questa domanda fosse più capace di rispondere (non di dico di soddisfare) uno stile di vita consumistico, così come veniva profilandosi nella ideologia berlusconiana, anziché una qualsiasi altra proposta politica. Anzitutto, perché senza dubbio riusciva a incarnarla e ad esprimerla meglio rispetto ad ogni altra. E poi perché era più organica allo stile di vita propinato dalle tv commerciali. Proprio in ragione di questa ideologia si giustifica e si legittima la crepa sociale che divide il tessuto sociale tra i grandi detentori di ricchezza e il resto del paese. Il berlusconismo come “trasformazione passiva” ha tentato, e finora bisogna dire che c’è anche riuscito, a saldare e a tenere insieme il forte divario sociale che si è creato nel paese tra i grandi detentori di ricchezza e i ceti più poveri ed emarginati. Questa saldatura non è dovuta, come talvolta si crede, al “miraggio di ricchezza” che il berlusconismo ha saputo suscitare, in alcune fasi della sua storia, ma al “miraggio di ’immobilismo” che ha saputo realmente concretizzare, a quella nuova forma di gattopardismo, insito in ogni italiano, di credere che affinché tutto cambi, nulla deve cambiare. Ora però che questo immobilismo sociale sta producendo i suoi effetti negativi, da più parti si prende consapevolezza dei danni sociali che il berlusconismo ha prodotto nel paese. Come stiamo verificando proprio in questi mesi, il berlusconismo è entrato in crisi proprio nel momento in cui la domanda di consumi è cominciata a calare. Tuttavia, aggiungiamo che il "fenomeno" non è destinato a scomparire nel momento in cui il suo "ispiratore" non farà più politica, ma resterà a lungo nelle coscienze degli italiani. La sua trasformazione passiva incederà a fondo nel tessuto sociale italiano. E credo che alla fine sia questo il danno maggiore che farà alla società nel suo complesso.
Le due trasformazioni della società
Sopra ho provato ad abbozzare, utilizzando categorie gramsciane, alcuni spunti interpretativi per analizzare il fenomeno del berlusconismo. In quello abbozzo sostenevo che il berlusconismo sia una sintesi di elementi appartenenti alle due forme di «rivoluzione passiva» teorizzate da Gramsci, vale a dire, il “fordismo” e il fascismo. Tuttavia, il riferimento alla categoria gramsciana ha bisogno di un ulteriore chiarimento ed approfondimento. Gramsci aveva mutuato il concetto di «rivoluzione passiva» da Vincenzo Cuoco che se n’era servito per caratterizzare la rivoluzione napoletano del 1799. Nel corso della sua riflessione carceraria, Gramsci lo arricchisce concettualmente, tale da farlo diventare uno dei concetti più complessi dei Quaderni del carcere. In estrema sintesi, si ha un processo di rivoluzione passiva ogni qualvolta una delle due parti antagoniste riesce ad assorbire o da assimilarsi l’altra parte sino al punto di svuotarla nei suoi contenuti e di guidarne la direzione. Tale processo di assimilazione può avvenire progressivamente, vale a dire a piccoli passi o “molecolarmente”, oppure in maniera massiccia, vale a dire assorbendo interi “gruppi sociali” e politici.
Applicandolo alla realtà attuale, ho apportato delle modifiche sostanziali al concetto strategico gramsciano, e ho preferito usare il termine “trasformismo passivo” (preceduto dal prefisso “neo” per distinguerlo da quello storico), anziché quello di “rivoluzione”, in quanto quest’ultimo richiama un’epoca di sconvolgimenti politico-sociali spesso accompagnato da una fase cruenta e violenta. L’aggettivo “passivo” resta fisso al suo significato teorico, in quanto si richiama a un processo “subìto”, a cui non si è saputo opporre una resistenza adeguata. Potrei anche parlare di una “trasformazione passiva” della realtà sociale del nostro paese, e contrapporla a una “trasformazione attiva”, nel corso della quale i processi, anziché subirli passivamente, vengono attivati dagli stessi gruppi e attori sociali. Dietro ognuna di queste trasformazioni esiste un disegno o un progetto della società che si vuole realizzare. La trasformazione passiva mira a “imporre” (e quindi a conservare e a perpetuare) la propria posizione di dominio in tutti i gangli vitali della società, allargando il “divario” economico-sociale tra i ceti sociali, mira insomma ad allargare la distanza tra le proprie posizioni dominanti e quelle subalterne. Questa trasformazione passiva può essere imposta “coercitivamente”, tramite ad esempio un rafforzamento dell’apparato repressivo (in questo caso si ha una vera e propria dittatura o regime autoritario), oppure può essere realizzata attraverso un “consenso” generale o “spontaneo”. In questo caso secondo i gruppi economico-sociali esercitano sul resto della società una forte pressione persuasiva ed attrattiva, tale da “convincere” spontaneamente i ceti subalterni ad aderire al loro disegno politico-sociale. Pertanto, questi ceti si lasciano molecolarmente assorbire dal disegno “proposto” sino al punto di considerare quasi del tutto naturale le disparità socio-culturali predicate da quel disegno. Una trasformazione attiva, invece, dovrebbe operare nella direzione opposta, vale a dire dovrebbe essere in grado di disegnare una assetto della società in cui le disparità sociali, appunto, il divario tra gruppi dominanti e subalterni, insomma le distanze socio-culturali dovrebbero essere gradualmente eliminate anziché allargate.
Queste sono in estrema sintesi i due tipi di trasformazioni sociali che si possono mettere in atto. Se leggiamo un rapporto dell’Ocse, ci dice che in Italia dalla metà degli anni Ottanta ad oggi, la diseguaglianza sui redditi da lavoro, risparmi e capitale si è aggravata del 33%: «Tra i 30 paesi Ocse oggi l’Italia ha il sesto più grande gap tra ricchi e poveri». Il rapporto riconosce che sono state adottate delle contromisure: «L`Italia ha in parte colmato il crescente gap tra ricchi e poveri aumentando la tassazione sulle famiglie e spendendo di più in prestazioni sociali per le persone povere. Sorprendentemente, l`Italia é uno dei tre soli paesi Ocse che ha aumentato la spesa in prestazioni rivolte ai poveri negli ultimi dieci anni». Ma i dati nudi e crudi restano allarmanti: il reddito medio del 10 per cento degli Italiani più poveri è circa 5000 dollari, tenuto conto della parità del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari. Il reddito medio del 10 per cento più ricco è circa 55000 dollari, sopra la media Ocse. «I ricchi hanno beneficiato di più della crescita economica rispetto ai poveri ed alla classe media». Secondo questo rapporto dell’Ocse, il divario tra “ricchi” e “poveri” anziché diminuire è cresciuto ancora di più. Questo per limitarsi a un solo indicatore. Il che mi fa dire che negli ultimi decenni abbiamo assistito a un processo di “trasformazione passiva”, a un processo durante il quale le disuguaglianze e le differenze si sono rafforzate anziché indebolirsi.
Applicandolo alla realtà attuale, ho apportato delle modifiche sostanziali al concetto strategico gramsciano, e ho preferito usare il termine “trasformismo passivo” (preceduto dal prefisso “neo” per distinguerlo da quello storico), anziché quello di “rivoluzione”, in quanto quest’ultimo richiama un’epoca di sconvolgimenti politico-sociali spesso accompagnato da una fase cruenta e violenta. L’aggettivo “passivo” resta fisso al suo significato teorico, in quanto si richiama a un processo “subìto”, a cui non si è saputo opporre una resistenza adeguata. Potrei anche parlare di una “trasformazione passiva” della realtà sociale del nostro paese, e contrapporla a una “trasformazione attiva”, nel corso della quale i processi, anziché subirli passivamente, vengono attivati dagli stessi gruppi e attori sociali. Dietro ognuna di queste trasformazioni esiste un disegno o un progetto della società che si vuole realizzare. La trasformazione passiva mira a “imporre” (e quindi a conservare e a perpetuare) la propria posizione di dominio in tutti i gangli vitali della società, allargando il “divario” economico-sociale tra i ceti sociali, mira insomma ad allargare la distanza tra le proprie posizioni dominanti e quelle subalterne. Questa trasformazione passiva può essere imposta “coercitivamente”, tramite ad esempio un rafforzamento dell’apparato repressivo (in questo caso si ha una vera e propria dittatura o regime autoritario), oppure può essere realizzata attraverso un “consenso” generale o “spontaneo”. In questo caso secondo i gruppi economico-sociali esercitano sul resto della società una forte pressione persuasiva ed attrattiva, tale da “convincere” spontaneamente i ceti subalterni ad aderire al loro disegno politico-sociale. Pertanto, questi ceti si lasciano molecolarmente assorbire dal disegno “proposto” sino al punto di considerare quasi del tutto naturale le disparità socio-culturali predicate da quel disegno. Una trasformazione attiva, invece, dovrebbe operare nella direzione opposta, vale a dire dovrebbe essere in grado di disegnare una assetto della società in cui le disparità sociali, appunto, il divario tra gruppi dominanti e subalterni, insomma le distanze socio-culturali dovrebbero essere gradualmente eliminate anziché allargate.
Queste sono in estrema sintesi i due tipi di trasformazioni sociali che si possono mettere in atto. Se leggiamo un rapporto dell’Ocse, ci dice che in Italia dalla metà degli anni Ottanta ad oggi, la diseguaglianza sui redditi da lavoro, risparmi e capitale si è aggravata del 33%: «Tra i 30 paesi Ocse oggi l’Italia ha il sesto più grande gap tra ricchi e poveri». Il rapporto riconosce che sono state adottate delle contromisure: «L`Italia ha in parte colmato il crescente gap tra ricchi e poveri aumentando la tassazione sulle famiglie e spendendo di più in prestazioni sociali per le persone povere. Sorprendentemente, l`Italia é uno dei tre soli paesi Ocse che ha aumentato la spesa in prestazioni rivolte ai poveri negli ultimi dieci anni». Ma i dati nudi e crudi restano allarmanti: il reddito medio del 10 per cento degli Italiani più poveri è circa 5000 dollari, tenuto conto della parità del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari. Il reddito medio del 10 per cento più ricco è circa 55000 dollari, sopra la media Ocse. «I ricchi hanno beneficiato di più della crescita economica rispetto ai poveri ed alla classe media». Secondo questo rapporto dell’Ocse, il divario tra “ricchi” e “poveri” anziché diminuire è cresciuto ancora di più. Questo per limitarsi a un solo indicatore. Il che mi fa dire che negli ultimi decenni abbiamo assistito a un processo di “trasformazione passiva”, a un processo durante il quale le disuguaglianze e le differenze si sono rafforzate anziché indebolirsi.
La brasilizzazione del paese
Riprendiamo il discorso sugli squilibri della società italiana. Se prendiamo in esame qualsiasi “indicatore”, possiamo renderci conto di come il divario negli ultimi vent’anni anziché diminuire si sia allargato, sino a diventare talvolta una vera e propria voragine. Ho già citato lo squilibrio tra ricchi e poveri, ma a questo possiamo aggiungere quello tra Nord-Sud, tra uomo-donna, tra il reddito da lavoro e rendita finanziaria, tra lavoro dipendente e lavoro precario. Questi squilibri ne producano altri, ad esempio quello “culturale”: fasce sociali che si nutrono solo di televisione e altre che si rivolgono a un ventaglio ampio di scelte. Inoltre, se incrociamo i vari indicatori possiamo constatare come le situazioni diventino ancora più drammatiche. Nel loro complesso se tentiamo di individuare le cause che hanno determinato questi dislivelli molteplici, alle «classi dirigenti», che hanno governato il paese negli ultimi due decenni, possiamo attribuire una quota notevole di responsabilità, distribuite in proporzioni diverse. Intendo per classi dirigenti tutti coloro che hanno una responsabilità nella guida e nella direzione di un paese: abbiamo, ad esempio, i ceti imprenditoriali, politici, “intellettuali”, sindacali, “burocratici”, “finanziari” (banche), mediatici, corporativi, ecc. Ebbene, questi ceti non si sono “accorti” che nel paese gli squilibri aumentavano, e che nella società si stavano creando delle crepi, o delle fratture, che a lungo andare hanno provocato (e stanno tuttora provocando) un indebolimento strutturale del tessuto sociali. È come se all’interno del paese si stessero formando a poco a poco delle enclaves non di tipo territoriale, bensì sociali: l’enclave degli emarginati, dei disoccupati (sottoccupati, inoccupati), dei privilegiati, ecc. All’interno di ciascuna enclave vigono regole e stili di vita diversi: in una enclave la preoccupazione maggiore diventa l’apparire, il benessere psicofisico, la dieta, il viaggiare, i consumi alti; in un’altra, pagare l’affitto, comprare il latte, mandare i figli a scuola, insomma i consumi bassi. Diventano praticamente mondi che non comunicano, che parlano linguaggi completamente diversi: vivono sullo stesso territorio ma abitano in dimensioni opposte. Ciò provoca anche un modo diverso di valutare i vari comportamenti: nelle enclaves dei privilegiati la corruzione è considerata una pratica sociale tollerabile, fisiologica, in quanto serve ad acquisire ulteriori privilegi; in quelle degli emarginati, il reato viene bollato come una pratica antisociale, perseguitata e condannata con tutti i mezzi repressivi a disposizione. A lungo andare è come se i corpi sociali prendano direzioni opposte: l’uno va sempre più verso l’alto (più redditi, più rendite, più profitti, più privilegi), l’altro scende sempre più verso il basso. Ciò che a poco a poco i cosiddetti ceti intermedi, quelli che da sempre all’interno della società hanno avuto la funzione di fare da cuscinetto nei momenti di crisi, di attutire gli urti più drammatici della crisi, finiscono con l’assottigliarsi. La scomparsa di questi ceti è accompagnata da uno smantellamento del Welfare state, dovuto a tre ragioni: i ceti disposti a finanziarlo sono in via d’estinzione; l’aumento della fascia dei ceti deboli e a basso reddito rende più costoso il suo mantenimento; la concezione della vita che si sta facendo largo tra le classi privilegiate punta tutto sul self-service: se sei nella condizione di fare questo o quest’altro lo fai, altrimenti t’arrangi! A tutte queste dinamiche il sociologo Ulrich Beck ha dato un nome: brasilizzazione del paese (anche se il termine non pare corretto perché in quel paese la tendenza comincia ad essere invertita!).
Secondo il rapporto della Bankitalia (novembre 2010), la concentrazione dei redditi è risultata nel 2008 sostanzialmente in linea con quella rilevata negli anni passati, con il 10% delle famiglie che possiede quasi il 45% dell'intera ricchezza netta, mentre la quota di individui con reddito al di sotto della soglia di povertà risulta pari al 13,4%, anche in questo caso con valore sostanzialmente in linea con quello rilevato nel 2006.
Riprendiamo il discorso sugli squilibri della società italiana. Se prendiamo in esame qualsiasi “indicatore”, possiamo renderci conto di come il divario negli ultimi vent’anni anziché diminuire si sia allargato, sino a diventare talvolta una vera e propria voragine. Ho già citato lo squilibrio tra ricchi e poveri, ma a questo possiamo aggiungere quello tra Nord-Sud, tra uomo-donna, tra il reddito da lavoro e rendita finanziaria, tra lavoro dipendente e lavoro precario. Questi squilibri ne producano altri, ad esempio quello “culturale”: fasce sociali che si nutrono solo di televisione e altre che si rivolgono a un ventaglio ampio di scelte. Inoltre, se incrociamo i vari indicatori possiamo constatare come le situazioni diventino ancora più drammatiche. Nel loro complesso se tentiamo di individuare le cause che hanno determinato questi dislivelli molteplici, alle «classi dirigenti», che hanno governato il paese negli ultimi due decenni, possiamo attribuire una quota notevole di responsabilità, distribuite in proporzioni diverse. Intendo per classi dirigenti tutti coloro che hanno una responsabilità nella guida e nella direzione di un paese: abbiamo, ad esempio, i ceti imprenditoriali, politici, “intellettuali”, sindacali, “burocratici”, “finanziari” (banche), mediatici, corporativi, ecc. Ebbene, questi ceti non si sono “accorti” che nel paese gli squilibri aumentavano, e che nella società si stavano creando delle crepi, o delle fratture, che a lungo andare hanno provocato (e stanno tuttora provocando) un indebolimento strutturale del tessuto sociali. È come se all’interno del paese si stessero formando a poco a poco delle enclaves non di tipo territoriale, bensì sociali: l’enclave degli emarginati, dei disoccupati (sottoccupati, inoccupati), dei privilegiati, ecc. All’interno di ciascuna enclave vigono regole e stili di vita diversi: in una enclave la preoccupazione maggiore diventa l’apparire, il benessere psicofisico, la dieta, il viaggiare, i consumi alti; in un’altra, pagare l’affitto, comprare il latte, mandare i figli a scuola, insomma i consumi bassi. Diventano praticamente mondi che non comunicano, che parlano linguaggi completamente diversi: vivono sullo stesso territorio ma abitano in dimensioni opposte. Ciò provoca anche un modo diverso di valutare i vari comportamenti: nelle enclaves dei privilegiati la corruzione è considerata una pratica sociale tollerabile, fisiologica, in quanto serve ad acquisire ulteriori privilegi; in quelle degli emarginati, il reato viene bollato come una pratica antisociale, perseguitata e condannata con tutti i mezzi repressivi a disposizione. A lungo andare è come se i corpi sociali prendano direzioni opposte: l’uno va sempre più verso l’alto (più redditi, più rendite, più profitti, più privilegi), l’altro scende sempre più verso il basso. Ciò che a poco a poco i cosiddetti ceti intermedi, quelli che da sempre all’interno della società hanno avuto la funzione di fare da cuscinetto nei momenti di crisi, di attutire gli urti più drammatici della crisi, finiscono con l’assottigliarsi. La scomparsa di questi ceti è accompagnata da uno smantellamento del Welfare state, dovuto a tre ragioni: i ceti disposti a finanziarlo sono in via d’estinzione; l’aumento della fascia dei ceti deboli e a basso reddito rende più costoso il suo mantenimento; la concezione della vita che si sta facendo largo tra le classi privilegiate punta tutto sul self-service: se sei nella condizione di fare questo o quest’altro lo fai, altrimenti t’arrangi! A tutte queste dinamiche il sociologo Ulrich Beck ha dato un nome: brasilizzazione del paese (anche se il termine non pare corretto perché in quel paese la tendenza comincia ad essere invertita!).
Secondo il rapporto della Bankitalia (novembre 2010), la concentrazione dei redditi è risultata nel 2008 sostanzialmente in linea con quella rilevata negli anni passati, con il 10% delle famiglie che possiede quasi il 45% dell'intera ricchezza netta, mentre la quota di individui con reddito al di sotto della soglia di povertà risulta pari al 13,4%, anche in questo caso con valore sostanzialmente in linea con quello rilevato nel 2006.
2 commenti:
Questa è veramente un'analisi approfondita!
Grazie,
Lara
Grazie Lara del commento
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