«Per secoli,
nell’ambito dello scrivere, la situazione era la seguente: che un numero
limitato di persone dedite allo scrivere stava di fronte a numerose migliaia di
lettori. Con la crescente espansione della stampa […] gruppi sempre più
cospicui di lettori passarono – dapprima casualmente – dalla parte di coloro
che scrivono» [Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica].
Il che lascia
supporre che con l’avvento dei new media questa distinzione si può dire definitivamente
tramontata: chi legge chi? Il poeta Mallarmé pensava che il mondo esistesse per
finire in un libro. Oggi possiamo credere che esiste per finire in Internet. L’uomo alfabetizzato
subisce una menomazione delle sue capacità fantastiche, emozionali, sensoriali.
Nell’’uomo digitalizzato queste capacità subiscono un’ulteriore diminuzione.
Viviamo miticamente, ma continuiamo a pensare frammentariamente.
La lettura di un
libro a stampa richiede un lettore passivo più della lettura di un testo manoscritto.
La narrazione deve saper coinvolgere il lettore. Al lettore attivo piace
partecipare allo sviluppo narrativo. Uno stile frammentario, aforistico implica
un maggior coinvolgimento cognitivo e un minor coinvolgimento emotivo. Lo stile
sequenziale, lineare induce alla partecipazione emotiva, a uno stato di
rilassamento mentale. Il lettore vuole sprofondarsi nella lettura. Invece è
l’opera che deve sprofondarsi nel lettore.
Lo stile, scrive Marcel Proust ne’ Il tempo ritrovato, non è un problema di tecnica, ma di “visione”: «Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il
nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi». Talvolta, come accade nella
raccolta poetica Preludi di Thomas
Stearns Eliot, questo mondo arriva a noi attraverso scaglie poetiche, in cui
gli oggetti vengono descritti con pochi tratti, o accennati, e mai
compiutamente: «La
sera d’inverno si posa / con odore di bistecche nelle strade». Altre volte, sembrano «ombre che svicolan nel
buio vano» sotto «gli occhi morti» di un
silvestre fauno, come recita La musica al
Mirabell di Georg Trakl, un giovane poeta morto all’età di ventisette anni.
Lo
stile è un problema di visione e ogni visione contiene un punto di vista, uno
sguardo proiettato al di là del mondo in cui viviamo. Uno sguardo proiettato
sul passato o sul futuro. E qui allora mi sovviene il mondo elegiaco di Pane e vino di Friedrich Hölderlin: «Ma
dove sono i troni, i templi e dove i vasi? […] / cresce dormendo il potere
della parola». Vedo il “potere della parola” che s’installa nelle visioni
poetiche di un altro giovane Poeta, Arthur Rimbaud: «Trovare una lingua; – del
resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale!
Bisogna essere un accademico – più morto di un fossile – per portare a termine
un dizionario di qualunque lingua sia». E così Rimbaud parla della lingua
dell’anima per l’anima, che riassume tutto: «profumi, suoni, colori; pensiero
che uncina il pensiero e che tira» (Lettera
del veggente).
È vano
andare alla ricerca di quelle Corrispondenze
sinestetiche: i sensi del poeta sono ormai deragliati. L’ultimo tentativo di
ancorare il linguaggio al mondo poetico termina la sua corsa. Deragliano
i sensi, ma non le immagini evocate dalla parola. Poi anche le parole
precipitano negli inferi: «clgr grtl gzdr /la fatica / il / piede / verbo nel
nervo / una /unita / gassometro sacerdotale / […]». Inutile cercare un senso in
queste lettere messe casualmente in ordine da Tristan Tzara ne’ La sfilata fittizia e familiare! Adesso
deragliano anche le parole! E con esse, le immagini.
Le
visioni? Che fine fanno le visioni in questo catastrofico deragliamento? Le
immagini di Auschwitz cominciano a fare il giro del mondo: «Auschwitz ha
dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse
succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle
scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia
riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. Tutta la cultura – scrive
Adorno nella Dialettica negativa –
dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura».
Dopo
Auschwitz deraglia l’umanità intera. E la poesia? Può ancora levare il suo
canto all’alba dopo che l’umanità ha tradito se stessa? Quell’umanità che non
muta pelo, questa umanità ridotta a gregge, soddisfatta del suo benessere, che
ha rinunciato a ribellarsi ai soprusi e alla violenza quotidiana, che tanto
avrebbe da imparare dal lupo, come recita una poesia di Hans Magnus
Enzenberger: «L’anello al naso è il vostro gioiello più caro, / nessun inganno
è abbastanza cretino, nessuna / consolazione abbastanza a buon prezzo, ogni
ricatto / troppo blando è per voi» (Difesa
dei lupi contro le pecore). Questa umanità è capace di sopportare la fine del linguaggio poetico o ama ancora trastullarsi con i suoi versi zuccherosi?
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