sabato 25 gennaio 2020

Poetici deragliamenti


«Per secoli, nell’ambito dello scrivere, la situazione era la seguente: che un numero limitato di persone dedite allo scrivere stava di fronte a numerose migliaia di lettori. Con la crescente espansione della stampa […] gruppi sempre più cospicui di lettori passarono – dapprima casualmente – dalla parte di coloro che scrivono» [Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica].

Il che lascia supporre che con l’avvento dei new media questa distinzione si può dire definitivamente tramontata: chi legge chi? Il poeta Mallarmé pensava che il mondo esistesse per finire in un libro. Oggi possiamo credere che esiste per finire in Internet. L’uomo alfabetizzato subisce una menomazione delle sue capacità fantastiche, emozionali, sensoriali. Nell’’uomo digitalizzato queste capacità subiscono un’ulteriore diminuzione. Viviamo miticamente, ma continuiamo a pensare frammentariamente.
La lettura di un libro a stampa richiede un lettore passivo più della lettura di un testo manoscritto. La narrazione deve saper coinvolgere il lettore. Al lettore attivo piace partecipare allo sviluppo narrativo. Uno stile frammentario, aforistico implica un maggior coinvolgimento cognitivo e un minor coinvolgimento emotivo. Lo stile sequenziale, lineare induce alla partecipazione emotiva, a uno stato di rilassamento mentale. Il lettore vuole sprofondarsi nella lettura. Invece è l’opera che deve sprofondarsi nel lettore.
Lo stile, scrive Marcel Proust ne’ Il tempo ritrovato, non è un problema di tecnica, ma di “visione”: «Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi». Talvolta, come accade nella raccolta poetica Preludi di Thomas Stearns Eliot, questo mondo arriva a noi attraverso scaglie poetiche, in cui gli oggetti vengono descritti con pochi tratti, o accennati, e mai compiutamente: «La sera d’inverno si posa / con odore di bistecche nelle strade». Altre volte, sembrano «ombre che svicolan nel buio vano» sotto «gli occhi morti» di un silvestre fauno, come recita La musica al Mirabell di Georg Trakl, un giovane poeta morto all’età di ventisette anni.
Lo stile è un problema di visione e ogni visione contiene un punto di vista, uno sguardo proiettato al di là del mondo in cui viviamo. Uno sguardo proiettato sul passato o sul futuro. E qui allora mi sovviene il mondo elegiaco di Pane e vino di Friedrich Hölderlin: «Ma dove sono i troni, i templi e dove i vasi? […] / cresce dormendo il potere della parola». Vedo il “potere della parola” che s’installa nelle visioni poetiche di un altro giovane Poeta, Arthur Rimbaud: «Trovare una lingua; – del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! Bisogna essere un accademico – più morto di un fossile – per portare a termine un dizionario di qualunque lingua sia». E così Rimbaud parla della lingua dell’anima per l’anima, che riassume tutto: «profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e che tira» (Lettera del veggente).
È vano andare alla ricerca di quelle Corrispondenze sinestetiche: i sensi del poeta sono ormai deragliati. L’ultimo tentativo di ancorare il linguaggio al mondo poetico termina la sua corsa. Deragliano i sensi, ma non le immagini evocate dalla parola. Poi anche le parole precipitano negli inferi: «clgr grtl gzdr /la fatica / il / piede / verbo nel nervo / una /unita / gassometro sacerdotale / […]». Inutile cercare un senso in queste lettere messe casualmente in ordine da Tristan Tzara ne’ La sfilata fittizia e familiare! Adesso deragliano anche le parole! E con esse, le immagini.
Le visioni? Che fine fanno le visioni in questo catastrofico deragliamento? Le immagini di Auschwitz cominciano a fare il giro del mondo: «Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. Tutta la cultura – scrive Adorno nella Dialettica negativa – dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura».
Dopo Auschwitz deraglia l’umanità intera. E la poesia? Può ancora levare il suo canto all’alba dopo che l’umanità ha tradito se stessa? Quell’umanità che non muta pelo, questa umanità ridotta a gregge, soddisfatta del suo benessere, che ha rinunciato a ribellarsi ai soprusi e alla violenza quotidiana, che tanto avrebbe da imparare dal lupo, come recita una poesia di Hans Magnus Enzenberger: «L’anello al naso è il vostro gioiello più caro, / nessun inganno è abbastanza cretino, nessuna / consolazione abbastanza a buon prezzo, ogni ricatto / troppo blando è per voi» (Difesa dei lupi contro le pecore). Questa umanità è capace di sopportare la fine del linguaggio poetico o ama ancora trastullarsi con i suoi versi zuccherosi?

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