Qualche tempo fa, è uscito un libro di Roger-Pol Droit dal
titolo La passeggiata di Kant. Da
quel poco che ho letto, si tratta di un testo che vuole offrire una “filosofia
del camminare”. In verità, sulle passeggiate dei filosofi esistono tanti
aneddoti. Talvolta persino divertenti. Altre volte sono un po’ più seri. Mi
torna in mente, ad esempio, l’insidiosa obiezione di Thomas Hobbes al cogito
cartesiano, che il filosofo francese voleva “spacciare” come “sostanza”, ossia
una res cogitans, quando in realtà, secondo Hobbes, si tratta di
un’attività della mente.
Cosicché, gli obiettava Hobbes, non possiamo definire una “passeggiata” un uomo che passeggia. Lasciamo stare la risposta piuttosto piccata di Cartesio. Mi sono divertito molto a leggere nella Vita e opere di Cartesio di Eugenio Garin, come il padre del razionalismo ha reagito alle obiezioni hobbesiane. In pratica, le ha trascurate. Forse ha ragione Leibniz quando afferma che Cartesio fosse un po’ geloso della fama di Hobbes. Comunque al di là della disputa filosofica, è notevole che Hobbes abbia usato l’argomentazione della passeggiata per confutare il cogito cartesiano!
Cosicché, gli obiettava Hobbes, non possiamo definire una “passeggiata” un uomo che passeggia. Lasciamo stare la risposta piuttosto piccata di Cartesio. Mi sono divertito molto a leggere nella Vita e opere di Cartesio di Eugenio Garin, come il padre del razionalismo ha reagito alle obiezioni hobbesiane. In pratica, le ha trascurate. Forse ha ragione Leibniz quando afferma che Cartesio fosse un po’ geloso della fama di Hobbes. Comunque al di là della disputa filosofica, è notevole che Hobbes abbia usato l’argomentazione della passeggiata per confutare il cogito cartesiano!
Tuttavia, a parte l’argomentazione usata, credo che né
Hobbes né Cartesio fossero dei cultori, anzi Cartesio in particolare era un grande
sedentario. È noto che amasse starsene a letto fino al mattino tardi o davanti
a una stufa a meditare. Invece, sussiste
un gruppo nutrito di filosofi che hanno praticato una sorta di passeggiata
“rituale”. In primo luogo, penso ad Aristotele, a Rousseau, a Kant, a
Schopenhauer o a Kierkegaard; in secondo luogo, invece, penso alle lunghe camminate
di Nietzsche o Heidegger. Mi domando se sussista una relazione tra il
“carattere” della loro filosofia e il loro piacere di passeggiare. Mi pongo una
domanda del tutto diversa da come se la sarebbe posta Hannah Arendt: non per analizzare
il loro “agire” ma per comprendere “chi
è l’uomo?”. Sia detto per inciso, chi ama passeggiare non effettua un agire
pubblico, bensì vuole dare luogo a un agire “privato”. Ma quale carattere vado
cercando in queste filosofie? Qualcosa che le tempra? Che le fa essere forti e
robuste, capaci di resistere allo scorrere del tempo? Pensarla così sarebbe
discriminante nei confronti di quei filosofi che non amavano passeggiare, i
“filosofi da tavolino”, come li definirebbe Nietzsche.
Le passeggiate di Kant o quelle di Schopenhauer hanno
qualcosa di talmente eccentrico fino a diventare leggendarie. Le camminate di
Nietzsche o di Heidegger si coprono, invece, di significati simbolici, sono
cioè camminate che s’ammantano di significati filosofici, come la celebre
camminata di Nietzsche attraverso i boschi lungo il lago di Silvaplana,
dell’agosto 1881: «A 6000
piedi, al di là dell’uomo e del tempo», come annoterà Nietzsche in un foglio
(cfr. Ecce homo), «presso una
possente roccia che si levava in figura di piramide, davanti a Surlei, mi
arrestai ed ecco giunse a me quel pensiero», ossia il pensiero dell’eterno ritorno dell’identico!
Heidegger, invece, parla di Kehre (svolta), quella curva della strada che s’inerpica su per le
montagne. Come spiega Gadamer in Maestri
e compagni, «qui
non è il viandante a girarsi, ma è la strada stessa che si volge nella
direzione opposta, per portare in alto».
C’è una tonalità di fondo nella passeggiata heideggeriana che rimanda alla
camminata enigmatica di Nietzsche. Entrambi hanno bisogno di salire, di
inerpicarsi lungo i sentieri, di respirare aria pura, quasi il bisogno di lasciarsi dietro il senso della terra!
La passeggiata di Kierkegaard assume, invece, un tono
caricaturale, come aveva messo bene in rilievo la rivista satirica Il Corsaro. Potrei anche dire però che
la passeggiata del filosofo danese è una passeggiata “esistenziale”. L’ombrello
di Kierkegaard era il bersaglio feroce del Corsaro:
uno sgraziato uomo con in testa un cilindro e sottobraccio viene ritratto
nell’atto di camminare. Il filosofo ne possedeva tre, uno di seta verde, uno di
seta nera e uno piccolo. Kierkegaard non lo amava solo per la sua utilità, se
lo portava dietro ogni volta che usciva di casa. Una volta addirittura rischiò
di essere travolto da un temporale perché non voleva rinunciare al suo ombrello
rivoltato dalla furia del vento! Diversamente, invece, la passeggiata di Aristotele,
una passeggiata, potremmo dire, “didattica”! Camminare facendo lezione aiuta la
mente a trovare meglio i pensieri da esprimere. Abbandonare la cattedra e mettersi a camminare
in aula, tra i banchi di scuola, fermarsi per un attimo come se si volesse
raccogliere un concetto per poi riprendere di nuovo il cammino, è come se si
volesse dare al pensiero che si sta esprimendo il suo movimento, seguirlo nel
suo divenire. Tutte queste immagini s’incorporano nella vita dei filosofi.
Diventano, cioè, quelle immagini, una sorta di etichette che restano impigliate
tra le pieghe della loro esistenza.
Ad esempio, chi non ricorda le passeggiate a passo veloce
del vecchio Schopenhauer seguito dal suo barboncino Atma che scodinzola per le
strade di Francoforte sul Meno? È improbabile trovare in questa immagine di
Schopenhauer a passeggio una briciola di filosofia! La sua filosofia, come
rispondeva il filosofo di Danzica ai suoi scocciatori, era adeguatamente
esposta nei suoi libri. La sua passeggiata, dopo aver pranzato all’“Englischer
Hof”, era semplicemente distensiva.
Poi mi viene in mente come il poeta Heine descrive il vecchio domestico
di Kant, di nome Lampe, nell’atto di accompagnare con l’ombrello sotto il
braccio il suo padrone alle lezioni di filosofia. Se Atma scodinzola dietro il
suo padrone, Lampe scodinzola dietro Kant “mentre un sudore d’angoscia e
lacrime gli scorrono sul volto”. Heine scherzosamente attribuisce al volto
afflitto di Lampe la decisione di scrivere La
critica della Pratica, per dare al vecchio domestico un Dio, “altrimenti il
povero uomo non sarà felice”!
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