venerdì 24 gennaio 2020

Passeggiate filosofiche

Qualche tempo fa, è uscito un libro di Roger-Pol Droit dal titolo La passeggiata di Kant. Da quel poco che ho letto, si tratta di un testo che vuole offrire una “filosofia del camminare”. In verità, sulle passeggiate dei filosofi esistono tanti aneddoti. Talvolta persino divertenti. Altre volte sono un po’ più seri. Mi torna in mente, ad esempio, l’insidiosa obiezione di Thomas Hobbes al cogito cartesiano, che il filosofo francese voleva “spacciare” come “sostanza”, ossia una res cogitans, quando in realtà, secondo Hobbes, si tratta di un’attività della mente.
Cosicché, gli obiettava Hobbes, non possiamo definire una “passeggiata” un uomo che passeggia. Lasciamo stare la risposta piuttosto piccata di Cartesio. Mi sono divertito molto a leggere nella Vita e opere di Cartesio di Eugenio Garin, come il padre del razionalismo ha reagito alle obiezioni hobbesiane. In pratica, le ha trascurate. Forse ha ragione Leibniz quando afferma che Cartesio fosse un po’ geloso della fama di Hobbes. Comunque al di là della disputa filosofica, è notevole che Hobbes abbia usato l’argomentazione della passeggiata per confutare il cogito cartesiano!
Tuttavia, a parte l’argomentazione usata, credo che né Hobbes né Cartesio fossero dei cultori, anzi Cartesio in particolare era un grande sedentario. È noto che amasse starsene a letto fino al mattino tardi o davanti a una stufa a meditare.  Invece, sussiste un gruppo nutrito di filosofi che hanno praticato una sorta di passeggiata “rituale”. In primo luogo, penso ad Aristotele, a Rousseau, a Kant, a Schopenhauer o a Kierkegaard; in secondo luogo, invece, penso alle lunghe camminate di Nietzsche o Heidegger. Mi domando se sussista una relazione tra il “carattere” della loro filosofia e il loro piacere di passeggiare. Mi pongo una domanda del tutto diversa da come se la sarebbe posta Hannah Arendt: non per analizzare il loro “agire” ma per comprendere “chi è l’uomo?”. Sia detto per inciso, chi ama passeggiare non effettua un agire pubblico, bensì vuole dare luogo a un agire “privato”. Ma quale carattere vado cercando in queste filosofie? Qualcosa che le tempra? Che le fa essere forti e robuste, capaci di resistere allo scorrere del tempo? Pensarla così sarebbe discriminante nei confronti di quei filosofi che non amavano passeggiare, i “filosofi da tavolino”, come li definirebbe Nietzsche.

Le passeggiate di Kant o quelle di Schopenhauer hanno qualcosa di talmente eccentrico fino a diventare leggendarie. Le camminate di Nietzsche o di Heidegger si coprono, invece, di significati simbolici, sono cioè camminate che s’ammantano di significati filosofici, come la celebre camminata di Nietzsche attraverso i boschi lungo il lago di Silvaplana, dell’agosto 1881: «A 6000 piedi, al di là dell’uomo e del tempo», come annoterà Nietzsche in un foglio (cfr. Ecce homo), «presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, davanti a Surlei, mi arrestai ed ecco giunse a me quel pensiero», ossia il pensiero dell’eterno ritorno dell’identico!
Heidegger, invece, parla di Kehre (svolta), quella curva della strada che s’inerpica su per le montagne. Come spiega Gadamer in Maestri e compagni, «qui non è il viandante a girarsi, ma è la strada stessa che si volge nella direzione opposta, per portare in alto». C’è una tonalità di fondo nella passeggiata heideggeriana che rimanda alla camminata enigmatica di Nietzsche. Entrambi hanno bisogno di salire, di inerpicarsi lungo i sentieri, di respirare aria pura, quasi il bisogno di lasciarsi dietro il senso della terra!
La passeggiata di Kierkegaard assume, invece, un tono caricaturale, come aveva messo bene in rilievo la rivista satirica Il Corsaro. Potrei anche dire però che la passeggiata del filosofo danese è una passeggiata “esistenziale”. L’ombrello di Kierkegaard era il bersaglio feroce del Corsaro: uno sgraziato uomo con in testa un cilindro e sottobraccio viene ritratto nell’atto di camminare. Il filosofo ne possedeva tre, uno di seta verde, uno di seta nera e uno piccolo. Kierkegaard non lo amava solo per la sua utilità, se lo portava dietro ogni volta che usciva di casa. Una volta addirittura rischiò di essere travolto da un temporale perché non voleva rinunciare al suo ombrello rivoltato dalla furia del vento! Diversamente, invece, la passeggiata di Aristotele, una passeggiata, potremmo dire, “didattica”! Camminare facendo lezione aiuta la mente a trovare meglio i pensieri da esprimere.  Abbandonare la cattedra e mettersi a camminare in aula, tra i banchi di scuola, fermarsi per un attimo come se si volesse raccogliere un concetto per poi riprendere di nuovo il cammino, è come se si volesse dare al pensiero che si sta esprimendo il suo movimento, seguirlo nel suo divenire. Tutte queste immagini s’incorporano nella vita dei filosofi. Diventano, cioè, quelle immagini, una sorta di etichette che restano impigliate tra le pieghe della loro esistenza.
Ad esempio, chi non ricorda le passeggiate a passo veloce del vecchio Schopenhauer seguito dal suo barboncino Atma che scodinzola per le strade di Francoforte sul Meno? È improbabile trovare in questa immagine di Schopenhauer a passeggio una briciola di filosofia! La sua filosofia, come rispondeva il filosofo di Danzica ai suoi scocciatori, era adeguatamente esposta nei suoi libri. La sua passeggiata, dopo aver pranzato all’“Englischer Hof”, era semplicemente distensiva.
Poi mi viene in mente come il poeta Heine descrive il vecchio domestico di Kant, di nome Lampe, nell’atto di accompagnare con l’ombrello sotto il braccio il suo padrone alle lezioni di filosofia. Se Atma scodinzola dietro il suo padrone, Lampe scodinzola dietro Kant “mentre un sudore d’angoscia e lacrime gli scorrono sul volto”. Heine scherzosamente attribuisce al volto afflitto di Lampe la decisione di scrivere La critica della Pratica, per dare al vecchio domestico un Dio, “altrimenti il povero uomo non sarà felice”!

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