Quantunque
siciliano, Luigi Pirandello ha trascorso gran parte della sua vita a Roma, dapprima
come studente, quando alla fine del 1887 lascia Palermo per frequentare il
secondo anno di Lettere all’Università della Sapienza; poi come insegnante
presso la cattedra di Linguistica e Stilistica all’Istituto Superiore Femminile
di Magistero, insegnamento durato 25 anni, e, infine, come autore di teatro,
fondando con Ruggero Ruggeri e Marta Abba il «Teatro d’arte di Roma». In
quest’arco di tempo, Pirandello cambierà più volte abitazione. Nei primi mesi
universitari, abita in via del Corso presso uno zio, poi si trasferisce in una
pensioncina in via delle Colonnette. Tracce di questo soggiorno giovanile
permangono nella prima raccolta di poesie Mal
giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889.
L'abitazione di via Bosio |
Dopo il
matrimonio con Maria Antonietta Portulano, i novelli sposi vanno ad abitare in
Via Sistina, angolo via del Tritone. Successivamente vanno a vivere in via Vittoria
Colonna, nel palazzo Odescalchi. Da via Mario Pagano, Pirandello si trasferisce
in via Alessandro Torlonia (oggi via Antonio Bosio) nei pressi di uno
stabilimento cinematografico, che gli ispira il romanzo Si gira…, che uscirà sulla Nuova
Antologia da giugno ad agosto, e in volume nel 1916; ristampato nel 1925
con il titolo cambiato in I quaderni di Serafino
Gubbio operatore. Nella abitazione di via Bosio, Pirandello muore il 10
dicembre del 1936. Dal 1962 in questa ultima dimora vi ha sede l’Istituto di
Studi Pirandelliani e sul Teatro italiano contemporaneo.
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La Roma dei tempi in cui si svolgono i destini incrociati dei
personaggi del romanzo pirandelliano, è la città che, nel giro di pochi
decenni, da quando è diventata capitale del regno, conosce una tumultuosa crescita
demografica assumendo quella fisionomia sociale di città prevalentemente
impiegatizia e di ceti medi che si insediano per lo più nei quartieri nuovi di
Ludovisi, Prati, Esquilino, ecc.). Dai 386.000 abitanti del 1891 passa al mezzo
milione nei giorni in cui Pirandello comincia a scrivere il suo capolavoro.
Un’immagine frenetica di questa Roma era apparsa al giovane
scrittore, arrivato dai confini del regno, come la descrisse nei versi di una
lirica di Mal giocondo (1889), in questi versi:
Ecco
la folla. – Chierici e beoni,
giovani e vecchi, femine ed ostieri,
soldati,
rivenduglioli, accattoni,
voi nati nell’ozio e di lascivia, serî,
uomini
no, ma pance, lieti amanti,
bottegaj, vetturini, gazzettieri,
voi
vagheggini, anzi stoffe ambulanti,
donne vendute da l’inceder franco,
goffe
nutrici, e voi dame eleganti,
quale strano spettacolo a lo stanco
di
rimirar, non sazio, occhio offerite
così male accozzate in largo branco.
Oh
viaggio curioso de le vite
schiocche d’innumerabili mortali!
Oh per le vie
de le città spedite,
che retata di drammi originali!...
(Triste, II).
Si potrebbe dire che il giovane poeta, a contatto con una
grande città, vive un vero e proprio shock
metropolitano. Quando egli s'aggira di giorno o di notte e incontra per le strade scarsamente illuminate della capitale una variopinta sarabanda di uomini e donne, tipi strani, bizzarri, bislacchi, che s’affollano in tutta la sua campionatura di fogge, mescolandosi in questo formicolìo e ne ascolta i passi, ciechi all’apparenza, ma cadenzati in una marcia caotica, non gli è difficile credere di vivere nel cuore dell’Impero alla fine della decadenza.
Nel romanzo
Il fu Mattia Pascal, Pirandello fa
dire all’eccentrico Anselmo Paleari che «quando una città ha avuto una vita
come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può
diventare una città moderna, cioè una città come un’altra». Appena un anno
prima della pubblicazione sulla Nuova
Antologia del romanzo pirandelliano, Georg Simmel aveva pubblicato Le metropoli e la vita dello spirito.
Come scrive Paolo Jedlowski nella prefazione all’edizione italiana (Armando,
2010), «si tratta di un piccolo capolavoro della sociologia, le cui indicazioni
per la comprensione dell’esperienza moderna sono ancora preziose» (p. 7).
Gli
accostanti tra la sociologia della forma di Simmel e l’opera di Pirandello
potrebbero essere molteplici, basti pensare al fatto che per entrambi la vita è
sia un fluire incessante che una
produzione di forme in cui questo fluire si fissa, concetti che lo stesso
Pirandello svilupperà nel saggio L’umorismo
(1908): «La vita è un
flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e
determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme
che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso
della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco
a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di
fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui
vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che creiamo, le condizioni, lo
stato in cui tendiamo a stabilirci» (ed. Garzanti, 1995, p. 210].
Tuttavia,
per non esulare dal nostro compito soffermiamoci in particolare sul tema della
“modernità”, e, più specificamente, sul perché, secondo il Paleari/pensiero,
Roma non può trasformarsi in una metropoli moderna. Per alcuni versi, la
parola-chiave per interpretare l’opera di Pirandello credo che rimandi proprio
al termine “modernità” nell’accezione simmeliana del termine. Quintessenza
della modernità è il mutamento, il «ritmo di cambiamento che l’era della
modernità ha avviato» (A. Giddens, Le conseguenze
della modernità, Il Mulino, Bologna 1994). L’estrema rapidità con cui si
succedono i cambiamenti nella condizione moderna, il suo incessante fluire non
consente all’esistenza di fissarsi in una forma stabile.
La “crisi”
dei personaggi pirandelliani dipende dalla consapevolezza che la vita non può
racchiudersi in una forma stabile, unica, valida per tutti coloro che entrano
in relazione con essa: la forma di ciascun personaggio muta con il mutare del
punto di osservazione. Da qui deriva il senso tragico dell’esistenza che li
contrassegna. La mutabilità non
riguarda tanto la “persona” in sé, quanto il punto o i punti di vista
attraverso i quali ciascuno è percepito e giudicato. È ovvio che tra questi
molteplici punti di vista vi è anche quello dello stesso personaggio, per cui
anch’esso vede e giudica se stesso dal proprio punto di vista. Sono dunque i
particolari punti di vista che tendono a racchiudere ciascuna vita in una forma
stabile e definita.
La modernità pirandelliana, in anticipo sui tempi, consiste
proprio in questa fondamentale scoperta: esistono tante forme quante sono le
prospettive. Questa scoperta è l’elemento caratterizzante della sua poetica.
Trasportata e tradotta sul piano narrativo, questa scoperta stravolge tutti i
moduli narrativi, in quanto lo stesso autore prende consapevolezza che anche il
narratore esprime un suo punto di vista, e quindi che non ha alcuna verità da
affermare.
Il “possesso” del proprio Io è dunque nell’occhio che
osserva. Nei Quaderni di Serafico Gubbio
operatore quest’occhio diventa un occhio meccanico, privo di anima.
L’occhio cinematografico, ossia la macchina da presa, al contrario di quello
umano, deve catturare o impossessarsi soltanto dell’immagine da dare in pasto a
un pubblico avido di emozioni forti che la vita reale non riesce ad offrire.
L’occhio vitreo della macchina da presa riduce il corpo degli attori in ombre,
è «un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza
evanescente, momentanea, giuoco d’illusione meccanica davanti al pubblico» (Quaderni di Serafico Gubbio operatore,
III, cap. VI).
Altro effetto della modernità, da affiancare al mutamento
incessante dei punti di osservazione, è l’eccesso
di stimoli offerto dalla vita metropolitana. Contro questo effetto l’unica
forma di difesa che l’abitante delle metropoli può mettere in atto è
l’anonimità delle relazioni, ossia il riserbo.
L’uomo blasé, per riprendere il
discorso di Simmel, ossia l’uomo disincantato e annoiato, è il prodotto
emblematico della vita moderna. Il blasé
è l’uomo incapace di percepire le differenze, di cogliere il dissimile nel simile.
Dal momento che la metropoli rappresenta la quintessenza
della modernità, dal punto di vista di Alselmo Paleari Roma non solo non
presenta i tratti della modernità, ma neanche potrà un giorno aspirare ad
averli. In realtà, Roma per il Paleari è ancora un luogo, quando invece per Adriano Meis è uno “spazio sociale”. Ciò
che Paleari non sospetta, e non è neanche nelle condizioni di sospettarlo, è di
trovarsi a parlare con un blasé,
ossia con un “tipo metropolitano” quale con la sua metamorfosi Adriano Meis è
diventato. A rigore, credo che non lo sappia neanche Adriano Meis, e forse non n'è consapevole neanche lo stesso Pirandello, perché il tipo metropolitano concettualmente è in
via di definizione proprio nei primi anni del Novecento. Infatti, nel momento in cui, dopo aver appreso sui giornali
la notizia del “suicidio” di Mattia Pascal, decide di darsi una nuova identità,
non sa che, scegliendo di vivere come Adriano Meis, il personaggio
pirandelliano è costretto a vestire i panni del tipo metropolitano. Lo scarto
che si è creato tra la “scomparsa” di Mattia Pascal e la sua “ricomparsa” sotto
il nome di Adriano Meis consiste proprio nella nascita dell’uomo delle metropoli.
La maggior parte della critica che si è occupata di questo
romanzo di Pirandello ha sempre posto l’accento sulla frantumazione del
personaggio. Aspetto ovviamente notevole della poetica pirandelliana, senza
dubbio. Eppure, di questa frantumazione la critica ha colto più gli aspetti di
continuità tra le varie metamorfosi del personaggio (Mattia Pascal, Adriano
Meis e “il fu Mattia Pascal”) che non gli aspetti di discontinuità. La
discontinuità sta proprio nello scarto abissale che si crea tra Mattia Pascal e
Adriano Meis. Sono due personaggi che rispondono a logiche esistenziali
completamente opposte. Per capire a fondo questo scarto, questa duplice logica
dovremmo per un attimo sospendere il giudizio sulle loro rispettive esistenze,
dimenticarci che in realtà sono la “medesima” persona, quantunque si presentino
sotto forme diverse. Mattia Pascal è l’uomo della città di provincia, come lo è
Anselmo Paleari. Adriano Meis è l’uomo metropolitano, un flâneur, l’uomo blasé, è
l’“uomo della folla” di poeiana memoria.
Quando nel 1904 Il fu Mattia Pascal uscì a puntate
sulla “Nuova Antologia”, eravamo all’inizio del secolo. Esattamente un anno dopo,
Albert Einstein pubblicherà le tre memorie sulla teoria speciale della
relatività, dalle quali emerge una visione del tutto originale sul tempo e lo
spazio, e appena un anno prima del Fu Mattia Pascal era apparso in
rivista il piccolo capolavoro sociologico di Geog Simmel, Le metropoli e la
vita dello spirito. Tra Simmel e Einstein, il nostro simpatico Mattia
Pascal si sarà trovato in buona compagnia nel raccontare al pubblico dei
lettori la sua grottesca vicenda. In effetti, per quanto inverosimile potesse
sembrare la sua storia, tant’è che lo stesso Pirandello si premura di riportare
nella Avvertenza sugli scrupoli di fantasia dei fatti di cronaca
analoghi a ciò che egli ha narrato nel suo romanzo, senza un’accelerazione
della vita quale si è avuta all’inizio del Novecento, non sarebbe stato
possibile concepire una storia così “stravagante”.
Tuttavia, per quanta comprensione noi lettori possiamo avere
nei confronti delle sue disgrazie, Mattia rimane pur sempre un uomo o un
personaggio della premodernità. Diciamo dunque così: Mattia Pascal diventa un
uomo della modernità soltanto nel momento in cui assume un’altra identità,
diventando Adriano Meis. Il romanzo di Luigi Pirandello, al di là del valore
letterario, presenta un aspetto del tutto particolare, in quanto ha la
singolare capacità di farci osservare in “presa diretta”, quasi a livello di un
esperimento laboratoriale, il passaggio dalla premodernità alla modernità.
Volendo usare le qualità o i valori delle Lezioni
americane di Italo Calvino, potrei dire che se Mattia incarna il senso
della “pesantezza”, Adriano, al contrario, incarna quello della “leggerezza”.
Se il primo è inchiodato alla sua condizione esistenziale, il secondo è pervaso
da un senso di “libertà sconfinata”, “unica”: la sua unica preoccupazione è di
“vivere nel presente”, “senza dover dar conto di nulla a nessuno”. Ma, come
scoprirà ben presto Adriano Meis, quella sua “libertà così sconfinata” è anche
un tantino tiranna, se non gli consente neppure di avere un cagnolino. Come
aveva ben visto Calvino, a proposito del romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile
leggerezza dell’essere, ciò che “scegliamo e apprezziamo come leggero non
tarda a rivelare il proprio peso insostenibile”.
Ecco dove s’annida il paradosso della modernità. Da un lato essa ci invita ad esser “leggeri”,
a disfarci di tutto il peso del passato, ad assumere persino una nuova
identità, a “ricostruirci” una nostra esistenza, insomma a “inventare” il
personaggio che intendiamo recitare sulla scena della vita, come fa in effetti
Adriano Meis, dall’altro però, ogni scelta che compiamo sottrae leggerezza al
nostro “esserci”. È interessante osservare la “metamorfosi” di Mattia Pascal
perché ci chiarisce in maniera abbastanza precisa le implicazioni a cui si va
incontro quando si passa dall’uomo della premodernità a quello della modernità.
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