martedì 28 gennaio 2020

Luigi Pirandello, le "dimore" romane e Adriano Meis come l'uomo blasé


Quantunque siciliano, Luigi Pirandello ha trascorso gran parte della sua vita a Roma, dapprima come studente, quando alla fine del 1887 lascia Palermo per frequentare il secondo anno di Lettere all’Università della Sapienza; poi come insegnante presso la cattedra di Linguistica e Stilistica all’Istituto Superiore Femminile di Magistero, insegnamento durato 25 anni, e, infine, come autore di teatro, fondando con Ruggero Ruggeri e Marta Abba il «Teatro d’arte di Roma». In quest’arco di tempo, Pirandello cambierà più volte abitazione. Nei primi mesi universitari, abita in via del Corso presso uno zio, poi si trasferisce in una pensioncina in via delle Colonnette. Tracce di questo soggiorno giovanile permangono nella prima raccolta di poesie Mal giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889.

L'abitazione di via Bosio
Dopo il matrimonio con Maria Antonietta Portulano, i novelli sposi vanno ad abitare in Via Sistina, angolo via del Tritone. Successivamente vanno a vivere in via Vittoria Colonna, nel palazzo Odescalchi. Da via Mario Pagano, Pirandello si trasferisce in via Alessandro Torlonia (oggi via Antonio Bosio) nei pressi di uno stabilimento cinematografico, che gli ispira il romanzo Si gira…, che uscirà sulla Nuova Antologia da giugno ad agosto, e in volume nel 1916; ristampato nel 1925 con il titolo cambiato in I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Nella abitazione di via Bosio, Pirandello muore il 10 dicembre del 1936. Dal 1962 in questa ultima dimora vi ha sede l’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro italiano contemporaneo.

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La Roma dei tempi in cui si svolgono i destini incrociati dei personaggi del romanzo pirandelliano, è la città che, nel giro di pochi decenni, da quando è diventata capitale del regno, conosce una tumultuosa crescita demografica assumendo quella fisionomia sociale di città prevalentemente impiegatizia e di ceti medi che si insediano per lo più nei quartieri nuovi di Ludovisi, Prati, Esquilino, ecc.). Dai 386.000 abitanti del 1891 passa al mezzo milione nei giorni in cui Pirandello comincia a scrivere il suo capolavoro.

Un’immagine frenetica di questa Roma era apparsa al giovane scrittore, arrivato dai confini del regno, come la descrisse nei versi di una lirica di Mal giocondo (1889), in questi versi:

Ecco la folla. – Chierici e beoni, 
giovani e vecchi, femine ed ostieri,
soldati, rivenduglioli, accattoni,
voi nati nell’ozio e di lascivia, serî,
uomini no, ma pance, lieti amanti,
bottegaj, vetturini, gazzettieri,
voi vagheggini, anzi stoffe ambulanti,
donne vendute da l’inceder franco,
goffe nutrici, e voi dame eleganti,
quale strano spettacolo a lo stanco
di rimirar, non sazio, occhio offerite
così male accozzate in largo branco.
Oh viaggio curioso de le vite
schiocche d’innumerabili mortali!
Oh per le vie de le città spedite,
che retata di drammi originali!...
(Triste, II).

Si potrebbe dire che il giovane poeta, a contatto con una grande città, vive un vero e proprio shock metropolitano. Quando egli s'aggira di giorno o di notte e incontra per le strade scarsamente illuminate della capitale una variopinta sarabanda di uomini e donne, tipi strani, bizzarri, bislacchi, che s’affollano in tutta la sua campionatura di fogge,  mescolandosi in questo formicolìo e ne ascolta i passi, ciechi all’apparenza, ma cadenzati in una marcia caotica, non gli è difficile credere di vivere nel cuore dell’Impero alla fine della decadenza.
Nel romanzo Il fu Mattia Pascal, Pirandello fa dire all’eccentrico Anselmo Paleari che «quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra». Appena un anno prima della pubblicazione sulla Nuova Antologia del romanzo pirandelliano, Georg Simmel aveva pubblicato Le metropoli e la vita dello spirito. Come scrive Paolo Jedlowski nella prefazione all’edizione italiana (Armando, 2010), «si tratta di un piccolo capolavoro della sociologia, le cui indicazioni per la comprensione dell’esperienza moderna sono ancora preziose» (p. 7).
Gli accostanti tra la sociologia della forma di Simmel e l’opera di Pirandello potrebbero essere molteplici, basti pensare al fatto che per entrambi la vita è sia un fluire incessante che una produzione di forme in cui questo fluire si fissa, concetti che lo stesso Pirandello svilupperà nel saggio L’umorismo (1908): «La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci» (ed. Garzanti, 1995, p. 210].
Tuttavia, per non esulare dal nostro compito soffermiamoci in particolare sul tema della “modernità”, e, più specificamente, sul perché, secondo il Paleari/pensiero, Roma non può trasformarsi in una metropoli moderna. Per alcuni versi, la parola-chiave per interpretare l’opera di Pirandello credo che rimandi proprio al termine “modernità” nell’accezione simmeliana del termine. Quintessenza della modernità è il mutamento, il «ritmo di cambiamento che l’era della modernità ha avviato» (A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994). L’estrema rapidità con cui si succedono i cambiamenti nella condizione moderna, il suo incessante fluire non consente all’esistenza di fissarsi in una forma stabile.
La “crisi” dei personaggi pirandelliani dipende dalla consapevolezza che la vita non può racchiudersi in una forma stabile, unica, valida per tutti coloro che entrano in relazione con essa: la forma di ciascun personaggio muta con il mutare del punto di osservazione. Da qui deriva il senso tragico dell’esistenza che li contrassegna. La mutabilità non riguarda tanto la “persona” in sé, quanto il punto o i punti di vista attraverso i quali ciascuno è percepito e giudicato. È ovvio che tra questi molteplici punti di vista vi è anche quello dello stesso personaggio, per cui anch’esso vede e giudica se stesso dal proprio punto di vista. Sono dunque i particolari punti di vista che tendono a racchiudere ciascuna vita in una forma stabile e definita.
La modernità pirandelliana, in anticipo sui tempi, consiste proprio in questa fondamentale scoperta: esistono tante forme quante sono le prospettive. Questa scoperta è l’elemento caratterizzante della sua poetica. Trasportata e tradotta sul piano narrativo, questa scoperta stravolge tutti i moduli narrativi, in quanto lo stesso autore prende consapevolezza che anche il narratore esprime un suo punto di vista, e quindi che non ha alcuna verità da affermare.
Il “possesso” del proprio Io è dunque nell’occhio che osserva. Nei Quaderni di Serafico Gubbio operatore quest’occhio diventa un occhio meccanico, privo di anima. L’occhio cinematografico, ossia la macchina da presa, al contrario di quello umano, deve catturare o impossessarsi soltanto dell’immagine da dare in pasto a un pubblico avido di emozioni forti che la vita reale non riesce ad offrire. L’occhio vitreo della macchina da presa riduce il corpo degli attori in ombre, è «un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d’illusione meccanica davanti al pubblico» (Quaderni di Serafico Gubbio operatore, III, cap. VI).
Altro effetto della modernità, da affiancare al mutamento incessante dei punti di osservazione, è l’eccesso di stimoli offerto dalla vita metropolitana. Contro questo effetto l’unica forma di difesa che l’abitante delle metropoli può mettere in atto è l’anonimità delle relazioni, ossia il riserbo. L’uomo blasé, per riprendere il discorso di Simmel, ossia l’uomo disincantato e annoiato, è il prodotto emblematico della vita moderna. Il blasé è l’uomo incapace di percepire le differenze, di cogliere il dissimile nel simile.
Dal momento che la metropoli rappresenta la quintessenza della modernità, dal punto di vista di Alselmo Paleari Roma non solo non presenta i tratti della modernità, ma neanche potrà un giorno aspirare ad averli. In realtà, Roma per il Paleari è ancora un luogo, quando invece per Adriano Meis è uno “spazio sociale”. Ciò che Paleari non sospetta, e non è neanche nelle condizioni di sospettarlo, è di trovarsi a parlare con un blasé, ossia con un “tipo metropolitano” quale con la sua metamorfosi Adriano Meis è diventato. A rigore, credo che non lo sappia neanche Adriano Meis, e forse non n'è consapevole neanche lo stesso Pirandello, perché il tipo metropolitano concettualmente è in via di definizione proprio nei primi anni del Novecento. Infatti, nel momento in cui, dopo aver appreso sui giornali la notizia del “suicidio” di Mattia Pascal, decide di darsi una nuova identità, non sa che, scegliendo di vivere come Adriano Meis, il personaggio pirandelliano è costretto a vestire i panni del tipo metropolitano. Lo scarto che si è creato tra la “scomparsa” di Mattia Pascal e la sua “ricomparsa” sotto il nome di Adriano Meis consiste proprio nella nascita dell’uomo delle metropoli.
La maggior parte della critica che si è occupata di questo romanzo di Pirandello ha sempre posto l’accento sulla frantumazione del personaggio. Aspetto ovviamente notevole della poetica pirandelliana, senza dubbio. Eppure, di questa frantumazione la critica ha colto più gli aspetti di continuità tra le varie metamorfosi del personaggio (Mattia Pascal, Adriano Meis e “il fu Mattia Pascal”) che non gli aspetti di discontinuità. La discontinuità sta proprio nello scarto abissale che si crea tra Mattia Pascal e Adriano Meis. Sono due personaggi che rispondono a logiche esistenziali completamente opposte. Per capire a fondo questo scarto, questa duplice logica dovremmo per un attimo sospendere il giudizio sulle loro rispettive esistenze, dimenticarci che in realtà sono la “medesima” persona, quantunque si presentino sotto forme diverse. Mattia Pascal è l’uomo della città di provincia, come lo è Anselmo Paleari. Adriano Meis è l’uomo metropolitano, un flâneur, l’uomo blasé, è l’“uomo della folla” di poeiana memoria.
Quando nel 1904 Il fu Mattia Pascal uscì a puntate sulla “Nuova Antologia”, eravamo all’inizio del secolo. Esattamente un anno dopo, Albert Einstein pubblicherà le tre memorie sulla teoria speciale della relatività, dalle quali emerge una visione del tutto originale sul tempo e lo spazio, e appena un anno prima del Fu Mattia Pascal era apparso in rivista il piccolo capolavoro sociologico di Geog Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito. Tra Simmel e Einstein, il nostro simpatico Mattia Pascal si sarà trovato in buona compagnia nel raccontare al pubblico dei lettori la sua grottesca vicenda. In effetti, per quanto inverosimile potesse sembrare la sua storia, tant’è che lo stesso Pirandello si premura di riportare nella Avvertenza sugli scrupoli di fantasia dei fatti di cronaca analoghi a ciò che egli ha narrato nel suo romanzo, senza un’accelerazione della vita quale si è avuta all’inizio del Novecento, non sarebbe stato possibile concepire una storia così “stravagante”.
Tuttavia, per quanta comprensione noi lettori possiamo avere nei confronti delle sue disgrazie, Mattia rimane pur sempre un uomo o un personaggio della premodernità. Diciamo dunque così: Mattia Pascal diventa un uomo della modernità soltanto nel momento in cui assume un’altra identità, diventando Adriano Meis. Il romanzo di Luigi Pirandello, al di là del valore letterario, presenta un aspetto del tutto particolare, in quanto ha la singolare capacità di farci osservare in “presa diretta”, quasi a livello di un esperimento laboratoriale, il passaggio dalla premodernità alla modernità.
Volendo usare le qualità o i valori delle Lezioni americane di Italo Calvino, potrei dire che se Mattia incarna il senso della “pesantezza”, Adriano, al contrario, incarna quello della “leggerezza”. Se il primo è inchiodato alla sua condizione esistenziale, il secondo è pervaso da un senso di “libertà sconfinata”, “unica”: la sua unica preoccupazione è di “vivere nel presente”, “senza dover dar conto di nulla a nessuno”. Ma, come scoprirà ben presto Adriano Meis, quella sua “libertà così sconfinata” è anche un tantino tiranna, se non gli consente neppure di avere un cagnolino. Come aveva ben visto Calvino, a proposito del romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, ciò che “scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile”.
Ecco dove s’annida il paradosso della modernità.  Da un lato essa ci invita ad esser “leggeri”, a disfarci di tutto il peso del passato, ad assumere persino una nuova identità, a “ricostruirci” una nostra esistenza, insomma a “inventare” il personaggio che intendiamo recitare sulla scena della vita, come fa in effetti Adriano Meis, dall’altro però, ogni scelta che compiamo sottrae leggerezza al nostro “esserci”. È interessante osservare la “metamorfosi” di Mattia Pascal perché ci chiarisce in maniera abbastanza precisa le implicazioni a cui si va incontro quando si passa dall’uomo della premodernità a quello della modernità.

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