L’universo della comunicazione ha dissipato la nebbia che un tempo avvolgeva il mondo dell’Essere, e ne ha svelato la dimensione mitica. Lasciate allora che il divenire mi sveli l’illusione della sua magica forza, ora che l’esperienza della comunicazione sopravanza, e di gran lunga, la comunicazione di qualsivoglia esperienza, così come un tempo James Joyce svelò al mondo come lo scrivere dell’esperienza finì con il cedere ineluttabilmente il passo all’esperienza dello scrivere.
Soltanto ora riesco a comprendere ciò che l’esperienza della comunicazione mi ha rivelato, il suo valore e, quindi, la sua destinazione. Ora che so che non è più importante che la veglia sia comunicata, ma il come viene comunicata.Perciò come un mitico viandante posso riprendere il mio cammino tra le strade di Dublino e seguire le tracce di Mr. Bloom. Ora che so che qualsiasi gesto della mia esistenza, in virtù del linguaggio, può rivelare la sua struttura mitica; ora che so, dopo Joyce, che soltanto in virtù del linguaggio ogni gesto può essere trasportato in questa dimora un tempo abitata dagli Dei.
Ciò che l’Ulisse di Joyce ha portato alla
coscienza di noi esseri mortali è che non il Divenire, ma l’Essere è ciò che
costituisce la reale dimensione del mito, e che l’essere straordinario non
abita più in ciò che accade, nell’accaduto, ma in ciò che lo narra: la forma
proteica dello stile.
È così che noi lettori dell’Ulisse siamo
trasportati nella dimensione linguistica del viaggio. Non è importante che
l’essere straordinario si celi dietro l’evento per mettere in moto la macchina
narrante. Lo straordinario (il nuovo, la novità) appartiene al sistema
informazionale, questa verità è resa ancor più palese: la novità, l’inatteso,
il sorprendente, ciò che un tempo alimentava la narrazione, ora alimenta la
macchina dell’informazione. Senza novità questa macchina s’inceppa. Ma la
notizia come velocemente viene prodotta altrettanto velocemente viene
consumata. Dissipata.
E l’informazione appartiene al piano del divenire, appartiene
all’attualità, a ciò che divenuto noto deve essere immediatamente sostituito da
un altro fatto altrettanto nuovo. La notizia di ieri oggi non è più una
notizia.
L’Essere soffre nella sua inarrestabile
dissipazione. La dimensione mitica rischia di svanire. E con essa svanisce
l’inattualità, quel saper parlare a tutte le epoche, quella continuità che dà
valore alla vita. L’attualità finisce con lo schiacciare la narrazione entro le
forme del divenire, di annegarla in quel fiume dove tutto scorre in modo
inesorabile: novità, novità, novità! Questa è la parola d’ordine del nostro
tempo. Fermate il tempo e riportatelo nell’ordine del mito! Al suo essere
inattuale, in quella dimensione in cui il mito mira a sottrarre essere al suo
divenire: "Imprimere al divenire il carattere dell'essere è una suprema
prova di potenza". Così scriveva Nietzsche, il filosofo dell'Inattuale.
Parlare di archetipi narrativi vuol dire
soprattutto parlare del tema dell’esilio. Quantunque, nelle varie epoche,
questo tema ha assunto forme diverse: alienazione, anomia, estraneazione. Il
tema dell’esilio rimanda al senso di sradicamento dalla Comunità, e al senso
dell’erranza. E continuamente “erro” in questo scavo senza senso e privo di
ogni dimensione significativa.
L’esiliato, l’alienato, l’estraneo è un
“eccentrico”, vale a dire si trova a vivere sempre “fuori dal centro” che lo costituisce.
L’eccentricità è dovuta al fatto che fuori dalla sua Patria, dal luogo in cui
egli ha visto crescere le sue radici, l’esiliato non ha “identità”. Privo di
identificazione, egli può assumere qualsiasi nome o chiamarsi “Nessuno”, come
accade all’esiliato ed “eccentrico” Odisseo.
Oppure, chiamarsi con l’altisonante nome di Don
Chisciotte della Mancia, come capita all’alienato mentale Alonso Quijano. Anche
chi perde la ragione, chi smarrisce il senno vive una condizione di esiliato,
si ritrova all’improvviso ad errare (e/o a sbagliare) in un mondo altro
rispetto a coloro che hanno conservata (la maggioranza) la ragione. Si sente spronato
ad agire in virtù della forza delle sue illusioni.
Ed è così che anche noi, dopo l’Ulisse di
Joyce, approdiamo all’altro vertice della narrativa occidentale, cioè al
mitico Don Chisciotte della Mancia di Miguel Cervantes. Gli
interpreti romantici hanno trasformato Don Chisciotte in un tragico cavaliere
dell’ideale. Eppure, se il Nostro non fosse stato preso o rapito dalla immensa
passione per i romanzi cavallereschi, se la sua fantasia non fosse stata
riempita da quel che leggeva nei suoi libri, “incanti, litigi, battaglie,
sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e stravaganze impossibili”, se
egli avesse continuato a vivere come un comune gentiluomo, in un borgo della
Mancia, nessuno ricorderebbe il nome.
Come lettore, Don Alonso Quijano sa che quel che si
narra nei romanzi cavallereschi è un mondo fittizio, è pura finzione. Di questa
verità n’è consapevole soprattutto l’Autore. Dunque, non si parla del contrasto
tra un idilliaco mondo ideale e un prosaico mondo reale, bensì del fatto che,
all’epoca in cui Cervantes scrive, è venuta in piena luce, dopo l’invenzione e
la diffusione della stampa, che la letteratura, o meglio, la narrazione è finzione.
“Finzione”: non si contrappone a una realtà reale,
bensì sta per “realtà costruita”. Il narratore deve costruire una realtà
poetica che abbia la stessa forza e la medesima consistenza della realtà reale.
Bel dramma! Bisogna indurre chi legge a credere che la finzione abbia lo stesso
spessore e la medesima consistenza della realtà reale. Bel dramma, davvero!
Soltanto un alienato mentale potrebbe scambiare la finzione per realtà!
Soltanto chi è fuori dal comune consorzio razionale potrebbe credere che la
finzione abbia la medesima consistenza della realtà.
Soltanto un folle, insomma, potrebbe
approdare a questa assurda erranza. Ed ecco allora che Miguel Cervantes
trasforma Don Alonso Quijano, un comune lettore di romanzi
cavallereschi, in un folle, rendendolo protagonista del suo dramma poetico.
Soltanto grazie a questa metamorfosi, io, lettore
reale, posso ora prestare fede alla storia in cui un lettore di romanzi
cavallereschi, diventato folle, si trasforma in un cavaliere errante. Le
avventure di Don Chisciotte ora possono apparire straordinarie perché sono
vissute con la forza dell’illusione. Ecco quanto Don Chisciotte svela: le
azioni umane sono mosse dalla forza dell’illusione. Travolti da questa
straordinaria forza, tutti gli aspetti della vita quotidiana, le cose più
ordinarie e comuni possono assumere un significato eccezionale. Nel Cosmo folle
di Don Chisciotte, le illusioni hanno la stessa consistenza reale che gli
interventi degli Dei avevano nel mondo mitico.
Per ora Cervantes cela la forza dell’illusione
dietro la maschera della follia. Ma quando tale verità diventerà evidente,
altre follie prenderanno il suo posto: saranno le follie dell’Amore,
dell’Ambizione, del Denaro, del Successo, della Vendetta, ecc.
Nessuna di queste follie ha meno realtà illusoria
dell’altra. Ed ognuna di loro darà luogo ad altre forme di eccentricità o di
erranza. Presi da queste moderne forme di follia, i protagonisti dei romanzi
futuri possono percepire ogni aspetto della vita quotidiana in maniera straordinaria.
L’uomo comune, il Sancho Panza di tutti i romanzi, diventa l’uomo senza
passioni, colui che non ha bisogno di alimentarsi alla fonte delle grandi illusioni della vita. Il Sancho
Panza, insomma, diventa il Mr. Bloom di Joyce che “erra” per le strade di
Dublino.
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