Del poeta Umberto Saba esiste un ritratto letterario
scritto da Eugenio Colorni. Saba: una delle voci più limpide e sincere del
Novecento. Ma Colorni? Chi era costui? Come scrive Claudio Magris, Colorni «è
un uomo che ha scritto saggi su Bergson, Leibniz e Croce… è una delle grandi
figure della lotta per la libertà, che vivrà a fondo in un crescendo impavido
ed eroico, sino al confino a Ventotene, alla redazione clandestina
dell’“Avanti!”, a varie azioni partigiane e alla morte il 30 maggio 1944 a
Roma, due giorni dopo essere stato colpito dagli spari della milizia in via
Livorno».
A Trieste, nel 1934, dove insegna filosofia e pedagogia
all’istituto magistrale Carducci, conosce e frequenta Umberto Saba (ritratto
poi in Un poeta). Il ’34 è l’anno in
cui Saba intraprende la svolta «modernista» di Parole, proseguita poi in Ultime
cose, opera pubblicata con premessa di Gianfranco Contini a Lugano, dove il
poeta s’era rifugiato in seguito alle leggi razziali. Saba è proprietario di un
piccolo negozio di libri antichi, non distante dalla casa in cui abita Colorni.
Il filosofo frequenta il negozio, ma evita il padrone,
il quale era, come si direbbe, un uomo antipatico, e non poteva «soffrire il
suo fare livido. Se gli domando un libro, mi fa capire che lui è un poeta. Se
gli parlo di poesia, mi guarda, come dire: “Al sodo, signore! Io vendo libri”».
Un giorno in cui lo trovò meno maldisposto, il filosofo
gli domanda: «È vero che farà un’edizione definitiva delle sue poesie?». Il
poeta gli risponde tutto sconfortato, dicendogli: «Può darsi, anche se i
giornali non se ne occuperanno e il pubblico non comprerà».
Il filosofo si mostra soddisfatto della lamentela del
poeta e può dire a se stesso: “Ecco non è un poeta, è un ambizioso. Non pensa
che al successo”.
Allora, quasi a mo’ di consolazione, il filosofo se ne
esce con un paio di frasi convenzionali, – che il successo non è la misura del
valore dell’opera, ecc. –, ma Saba lo interrompe bruscamente: «Non è vero. Il
poeta scrive solo per il successo. Non mi venga a parlare di arte come
espressione, come scopo a se stessa. La facoltà di esprimersi è, si capisce, un
presupposto della poesia. Il poeta canta perché ha qualche cosa da dire:
qualche cosa di diverso dagli altri, di eccezionale […] Ciò che il poeta
esprime sono i suoi istinti proibiti, ciò che egli canta sono le sue colpe. E
le canta per liberarsene, per confessarsi, per purificarsi. Se il pubblico gli
volta le spalle queste colpe gli ricascano addosso, più tormentose di prima».
Al filosofo viene facile obiettare che, ammesso che la
poesia serva a liberarsi dagli istinti proibiti, basta averle scritte queste
cose, il consenso del pubblico è del tutto superfluo. Ma il filosofo si
vergogna della sua frivolezza. Comprende che Saba chiede alla poesia «altre
liberazioni, che tocchino il fondo segreto e inconfessabile dell’essere umano»;
e di rimando il filosofo pensa all’irresistibile pudore che prende ciascun uomo
“sano”, o “normale”, «al momento di rivelare ad altri qualche parte nascosta,
quindi vera, di sé; al tremendo sforzo di sincerità che deve costare il dir
“tutto”, a tutti. Al senso insopportabile di nudità che deve provare chi vede
accogliere questo dono di sé, con distrazione, con indifferenza».
Dopo qualche tempo, il poeta divenne amico intimo del
filosofo. Un giorno il poeta gli domandò a bruciapelo: «È così sicuro, lei, di
essere sano? È perché fa filosofia?». «Da quel giorno», scrive Colorni, «io non
faccio più filosofia. Non saprei spiegare il perché». Ma leggendo più avanti,
il filosofo sa perché ha smesso di “praticare” un certo modo di fare filosofia:
«C’è tutta una serie di cose, di cui non ho più paura: di parlare per
approssimazioni, di dire “gli esseri umani”, anziché “Spirito”». È come se
all’improvviso il filosofo scoprisse, dietro quella domanda semplice del poeta,
il percorso inverso che la filosofia deve compiere rispetto alla poesia:
liberare l’umanità, o meglio gli umani, dai suoi istinti proibiti, acquisire la
capacità di sapere mettere a nudo il suo essere inconfessabile.
*****
In una capanna sulla costa
irlandese occidentale a Galway, nel 1948 c’è un filosofo che in completa
solitudine e malato di cancro sta meditando sul senso della filosofia come
terapia. Ha girato ormai le spalle alla filosofia tradizionale, che ha finito
per soffocare dentro schemi grammaticali rigidi il vasto spettro delle
distinzioni. Il suo filosofare genera inquietudini e sconforti intellettuali. I
problemi filosofici ora Wittgenstein li vive nel suo essere come Saba i suoi
assilli poetici. Medito su queste voci che giungono da un passato remoto,
trasportate su dei fogli di carta, e le ascolto in silenzio.
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