Leggendo i tre romanzi di Svevo, Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno, sono rimasto
particolarmente colpito dal modo in cui lo scrittore racconta il primo approccio
che i rispettivi protagonisti dei suoi romanzi hanno nei confronti delle donne
di cui s’innamorano. Svevo farà dire a Zeno Cosini che «è decisivo il modo in
cui s’avvicina per la prima volta a una donna». Sia nel caso di Alfonso Nitti con Annetta Maller, di Emilio
Brentani con Angiolina Zarri, che di Zeno Cosini con Augusta Malfenti, c’è una
circostanza particolare che ricorre e che mi ha incuriosito: in tutt’e tre i
casi è come se i personaggi “simulassero” di non vedere l’altro.
La macchina narrativa di Svevo si mette in movimento con
questa prima commedia degli equivoci.
Nel romanzo Una vita,
Annetta è la figlia del banchiere Maller, e Alfonso è un impiegato della Banca
Maller, arrivato dalla provincia grazie a un’amica della madre, Francesca, che
ora fa la governante in quella casa ed aspira a diventar la moglie del
banchiere.
La prima volta che Alfonso viene invitato nella sontuosa
casa, la giovane figlia, forse per sottolineare la sua distanza sociale
dall’impiegato, dopo le presentazioni, mostra subito la palese intenzione di
non rivolgergli parola. All’incontro sono presenti, Francesca, e il cugino di
Annetta, l’avvocato Macario, che alla fine finirà con lo sposare.
Nel corso della conversazione, Alfonso si rende
immediatamente conto di essere del tutto ignorato da Annetta: «Le due donne
parlavano a bassa voce […] Ignorato del tutto, egli si trovò imbarazzato».
Alfonso comincia a soffrire per il disagio provato dalla
situazione. Francesca indovina il malessere del giovane e cerca di coinvolgerlo
nella conversazione, ma Annetta s’ostina ad ignorarlo. Alfonso assiste «passivamente
al chiacchierio delle due donne, ora fingendo di prestarvi attenzione ed ora
volgendo modestamente gli occhi altrove». Annetta finge dunque di non vedere
l’ospite. Alfonso intuisce che la ragazza sta simulando un comportamento.
Nel caso di Emilio e Angiolina la “svista” assume un altro
significato. Nell’esordio, Emilio dice ad Angiolina: «T’amo molto e per il tuo
bene desidero che ci si metta d’accordo di andare molto cauti»; il narratore
demistifica la battuta e la corregge così: «Mi piace molto, ma nella mia vita
non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io,
la mia carriera, la mia famiglia». Questa dichiarazione di intenti da parte del
protagonista ci fa comprendere come egli voglia impostare la relazione amorosa:
Angiolina per Emilio non può che essere che un oggetto senza un punto di vista.
La donna nelle sue intenzioni rappresenta «un giocattolo»
che si abbandona non appena ci si stanca di esso: la donna nella sua vita viene
dopo lui, la sua carriera e la sua
famiglia. Il secondo intervento del narratore serve a demistificare la simulazione
di Brentani, e ci racconta in che consiste la famiglia di Brentani – «Una sola
sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente» – e la sua carriera – «Un impiegatuccio di poca importanza presso
una società di assicurazione». In questo caso è il protagonista che non vede la
realtà psichica della donna o, almeno, non s’accorge affatto della sua reale
natura.
Ancora più singolare e comico è l’incontro tra Zeno Cosini e
la sua futura moglie, Augusta. Zeno è un amico di Giovanni Malfenti, che ha
quattro figlie, due in età da marito. Giovanni è un commerciante scaltro che
vuole ammogliare la prima figliola, “strabica” e dalla “figura intera non
disgraziata, pure un po’ grossa per quella età”, a quel suo collega, strano e
un po’ bizzarro.
Nella prima visita però tutte le attenzione di Zeno sono
rivolte alla sorella più bella, Ada. Tutto il colloquio con le cinque femmine
di casa Malfenti è indirizzato per conquistare l’interesse e l’attenzione di
Ada. Le facezie e gli aneddoti che Zeno snocciola per far ridire le donne hanno
come unico scopo di sedurre Ada, ma in realtà su di lei producono l’effetto
contrario. Zeno tutto preso da Ada non s’accorge che sue parodie producono un
effetto, invece, su Augusta, di cui ignora l’esistenza, ma che finirà con
sposarla.
Anche se narrati con diverse modalità, gli incontri o i
primi approcci tra i protagonisti hanno un elemento comune: l’uno o l’una
simula di non vedere l’altra o l’altro. Che cosa può significare un particolare
del genere o cosa mai può svelarci? Mi sono posto questa domanda non soltanto
perché ero curioso di capire quale fosse il modus
operandi di Svevo, ma anche perché volevo capire com’egli sia riuscito a
proiettarlo nelle relazioni che costruisce tra i suoi personaggi.
Leggendo il romanzo Senilità, mi sono spesso
domandato quale fosse lo stile interattivo del protagonista, ossia come Emilio
Brentani si relazionasse all’altro, e se questo stile fosse una proiezione,
appunto, di quello del narratore. Le tre relazioni che il romanzo narra sono
quelle che lo legano alla sorella Amalia, alla bellissima Angiolina, e all’amico
artista Stefano Balli.
Credo che Senilità di Italo Svevo, insieme agli Indifferenti
di Alberto Moravia, rappresentino i due romanzi che meglio siano riusciti a mettere
al centro della loro macchina narrativa le interazioni tra i personaggi. In altri
termini, questi scrittori hanno saputo ordire il tessuto della loro materia narrativa
attraverso le interazioni interpersonali.
Non credo perciò di dire cosa nuova od originale se affermo
che i personaggi di Senilità o de’ Gli indifferenti hanno una
psicologia piuttosto dinamica, che i loro sentimenti e i loro stati d’animo, e la
loro coscienza si modificano nel corso della stessa narrazione. Il narratore
non descrive i caratteri, ma li fa emergere nel corso delle interazioni; le
loro coscienze non s’anticipano, ma si modificano dinamicamente nel corso delle
azioni.
Da buon lettore di Schopenhauer, Svevo divideva l’umanità in
due categorie: i lottatori e i contemplatori. Ovviamente uno è portato
a pensare che i due archetipi siano rispettivamente incarnati in Stefano Balli
ed Emilio Brentani. In effetti è così, ma bisogna tener conto di un leggera sfumatura:
Brentani diventa un contemplatore o un inetto, uno a cui piace più vedersi
vivere anziché vivere, perché “fallisce” nella lotta. Brentani vorrebbe vivere
mimicamente come l’amico, ma ne è incapace, e lo è perché nei suoi confronti è
un sottomesso.
Tra Brentani e Stefano Balli è attiva la modalità
prevaricatrice/sottomissiva, la stessa che il protagonista vorrebbe instaurare
nei confronti di Angiolina, ma non gli riesce; ed è la stessa che passa tra
Emilio Brentani e la sorella – «Dei due,
era lui l’egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di
se stessa». Ma ad analizzarla meglio si trova alla base anche degli due romanzi
citati: Annetta e il cugino Macario sono due prevaricatori nei confronti di
Alfonso; Giovanni Malventi prevarica su Zeno, ma Zeno prevarica sulla moglie
Augusta.
Ora, mi chiedo, Svevo ripete questo stile interattivo nelle
relazioni tra i suoi personaggi, perché lo conosce e lo ha indagato meglio
rispetto agli altri? Infatti, quali sono i tratti maggiori di questo stile, quelli
che lo rendono facilmente riconoscibile? Questo stile è caratterizzato
principalmente da due tratti: la volontà di assimilare il punto di vista
dell’altro al proprio e, di conseguenza, la volontà di annullare l’altrui punto
di vista.
In sostanza, il tratto principale di questo stile
interattivo è un’osservazione di primo livello, cioè un’osservazione in cui chi
osserva non riconosce ad alter la possibilità
di avere un proprio punto di vista; interagisce come se l’alter non
avesse alcun punto di vista.
Ho notato questo modo di osservare quando Annetta tratta
Alfonso, Emilio tratta Angiolina e, infine, nel modo in cui Zeno tratta
Augusta: nei loro primi approcci o incontri s’evidenzia appunto l’intenzione di
voler ignorare il proprio interlocutore.
Insomma, le interazioni dei personaggi sveviani passano
attraverso questa modalità; diciamo che è la loro modalità prevalente. Potrei
dedurne che questa fosse proprio la modalità prevalente di Ettore Schmitz.
Lo scrittore proveniva da una famiglia patriarcale, in cui
regnava incontrastata la figura di Francesco Schmitz, dal piglio piuttosto
burbero e autoritario, che imponeva ai figli maschi di diventare esperti uomini
di affari. La letteratura era vista da questo padre come un’inutile perdita di
tempo o un lusso che si concedevano gli oziosi. Ettore dovette assimilare molti
tratti del padre, ma li assimilò in modo ambiguo, accettandoli ma con
riluttanza o ostinazione.
Ogniqualvolta Svevo vedeva fallire il suo tentativo di
vedersi riconosciuto come narratore non poteva fare altro che dare ragione al
proprio padre. Tutte le componenti tematiche della riflessione di Svevo
confluiscono nel rapporto che i suoi personaggi intrattengono con la
letteratura. Quando scrive che la letteratura è qualcosa di inutile e dannosa sembra
esprimere il punto di vista paterno. Ma l’ostinazione a scrivere, nonostante
gli insuccessi, era anche un modo per affermare la sua passione autentica verso
qualcosa che non conosce calcoli.
Qualcuno ho notato che nell’uomo Svevo è come se convivessero
due personaggi: l’industriale triestino e lo scrittore italiano. In realtà non
si tratta proprio di questo: in lui convivono sempre la volontà di obbedire al
padre e la volontà di obbedire alla propria vocazione artistica, e quindi di
disobbedire al padre. Insomma, la narrativa sveviana si trova avvolta in questa
ingiunzione paradossale.
Ecco perché spesso i suoi
personaggi vivono quasi ai limiti della schizofrenia. Questa convivenza
contraddittoria alimenterà la sua fantasia narrativa, e Svevo attraverso la
scrittura è riuscito a proiettarla nelle relazioni tra i suoi personaggi;
potrei anche dire che è l’istanza di cui la sua narrativa s’è maggiormente
nutrita o ha preso l’abbrivio, ed è forse stata anche la cura attraverso la
quale, sebbene non sia riuscito a guarirla del tutto, ha tentato di dominare la
sua “ipocondria” nei limiti di una patologia sopportabile.
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