martedì 21 gennaio 2020

Scrittura per sé, scrittura per altri

Scrittura pubblica, scrittura privata: un po’ ci penso, talvolta ci ripenso nei tempi morti della giornata, quando meno me lo aspetto. Magari mentre mi spruzzo in faccia un pugno d’acqua, come se quel liquido mi aiutasse all’improvviso a risvegliare pensieri sopiti che nel corso di una settimana erano andati in letargo.
O mentre sorseggio una buona tazza di caffè al bar, tra i rumori dei vapori, la fretta della gente che entra ed esce come se fosse su di un palcoscenico, mentre do un'occhiata al mio tablet, o leggo un foglietto di qualche appunto. O mentre cammino guardando un cane che scodinzola per strada, o un'automobile che sfreccia. Insomma, mentre sono distratto dalle faccende quotidiane, ogni tanto, così di colpo, s'affaccia alla mente questo pensiero.
Una scrittura per altri, una scrittura per sé. Una scrittura frutto di un processo, una scrittura che porta a quel processo. Una scrittura messa in atto per ingannare l’attesa, una scrittura per raggirare l’inganno della vita. Ma a volte la scrittura privata, quella nata per raccontare un rapporto d'amore andato a male come un barattolo di marmellata, vuole avere la pretesa di essere pubblica, come se in questa strana metamorfosi il dolore della delusione avesse il potere di attutirne l’urto. Mitigarne gli effetti. Scrittura privata come forma di autoterapia. Condividere con degli sconosciuti l’amara esperienza aiuta a sopportare meglio il dolore. E così che lo scrivere diventa terapia, un modo per scaricare la tensione. È una scrittura innocua, che non provoca alcun maleficio, alcun danno, ma che, anche se non dà alcun beneficio, aiuta a saturare la semiosfera.
Scrittura interiore, scrittura intima, scrittura che sfiora appena la superficie dell’essere, scrittura a pelo d’acqua, non limpida e cristallina, ma torbida, confusa, stagnante, melliflua, satura di parole melense, stantie, scrittura che blandisce, che assopisce, che intorpidisce. Scrittura che lascia indifferente, che peggiora anziché elevare l’essere delle cose. Scrittura commerciale, talvolta, valutata un tanto a cartella. Scrittura da Premio letterario, per intenderci, celebrata nelle pagine patinate delle riviste, nella luce plaudente delle riviste letterarie. Scrittura che corrompe l’animo, che ha come risultato di accrescerne lo scetticismo, quasi a dire: siamo tutti uguali, in fondo. E, in fondo, forse è proprio così, o, almeno, diventa quasi una convinzione inoppugnabile.
Insomma, una scrittura che ha come scopo di abbassare la tensione, di eliminare il dramma, il cieco conflitto dell’essere. Di cacciare il mito sullo sfondo e di far avanzare false armonie. Di dare certezze, conferme, evitando di diffondere dubbi o perplessità. Come quando si dice: non ho forse già troppi problemi per aggiungerne altri? A che pro aggravare il mio mal/essere? Non è meglio alleggerirlo? Levare dalla testa qualche peso? Io ho bisogno di chi mi semplifichi la vita e non invece di chi me la vuole complicare. Di guardare alle cose presenti, poiché quelle lontane sono fuori dalla mia vista. Ossia, dalla mia vita. E sia pure, allora andiamo nella foresta a catturare qualche sparuto pappagalletto, o tra i monti a specchiarci nei laghi limpidi dell’amore. Tanto sappiamo che alla fine scrivere è sempre meglio che tacere.

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