sabato 25 gennaio 2020

Arendt, Levi e il “culto” della Memoria

Ho sentito una volta parlare di un’insegnante che “amava” portare i suoi studenti a tutti gli eventi dove si commemorasse la Shoah: convegni, incontri, presentazione di libri. 

Non c’era appuntamento al quale lei e la sua scolaresca non mancassero. Era un periodo in cui mi stavo occupando proprio del tema della memoria. Leggevo Aleida Assmann, Elena Agazzi, Enzo Traverso, Régine Robin. Sapere che una professoressa “obbligasse” i suoi studenti “a ricordare” le violenze dei nazisti non mi sembrò una buona idea. Proprio Traverso aveva parlato del rischio di trasformare la memoria, fortemente amplificata dai media, in una “ossessione commemorativa”, e i “luoghi della memoria” in una vera e propria “topolatria”: «Così prende forma il “turismo della memoria”, con la trasformazione dei siti storici in musei e mète per visite organizzate, dotati di adeguate strutture d’accoglienza (hotel, ristoranti, negozi di souvenir, ecc.) e promossi presso il pubblico con strategie pubblicitarie mirate» (Traverso).
Cosicché, anche l’atteggiamento compulsivo di quella insegnante mi sembrò dettato da quella “ossessione della memoria”. Intuivo che in quello atteggiamento c’era qualcosa che non mi tornava, ma non riuscivo a individuare cosa di preciso non andasse. D’altro canto, mi rendevo conto (e tuttora mi rendo conto) di come, sfiorare alcuni temi, si corra il rischio di essere decisamente fraintesi. Al fine di evitare qualsiasi tipo di malinteso dirò che le due letture che più hanno contato nella mia interpretazione del genocidio nazista sono state La banalità del male di Hannah Arendt e Se questo è un uomo di Primo Levi. Questi due testi hanno contribuito fortemente a cambiare la mia prospettiva sul significato di questo crimine orrendo: i due autori, da angolazioni diverse, “costringono” il lettore non più a rivolgere la loro attenzione soltanto alle vittime, ma anche e soprattutto ai carnefici.
La testimonianza di Levi e il resoconto di Arendt del processo Eichmann mi hanno fatto comprendere come sia stato possibile mettere in atto uno sterminio dalla vaste proporzioni. Ciò ha rappresentato per me un vero e proprio capovolgimento sull’uso che si può fare della memoria. In pratica, concentrando l’attenzione sulle vittime e sulle loro indicibili sofferenze, alla fine ci si “dimentica” dei carnefici. Preciso meglio il mio pensiero: focalizzando tutta l’attenzione sul risultato, ossia sullo sterminio, ci si dimentica dei processi persecutori che hanno reso possibile quel risultato. I revisionismi storici, quelli che hanno infine tentato di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, trovano in questa operazione di oblio/ricordo il loro fondamento. In fondo, dicono questi revisionisti, siamo tutti vittime della storia. Già, la “storia”! come se la Storia fosse la personificazione di un’entità malefica che agisce a nostra insaputa e sulle nostre teste, facendole rotolare di volta in volta sul tappeto insanguinato del tempo!
L’Olocausto viene posto in un luogo “sacro”, inaccessibile alla mente di chi vuole comprendere, in quanto la sua straordinaria follia rimane qualcosa che lo storico non potrò giammai categorizzare. Ponendo tutto ciò che appartiene alla storia dell’Olocausto in una sorta di reliquario, viene in questo modo come “staccato”, “scisso” dalla nostra storia presente. Per cui quando vengono commessi nuovi stermini, nuovi genocidi sulla terra, giammai possono essere comparati all’"Olocausto", per non incorrere nel peccato di blasfemia.
La scissione, dunque, ha la funzione di assolverci per quanto è accaduto. L’insegnante che porta i suoi studenti nei luoghi sacri dell’Olocausto è come se dicesse a se stessa e agli altri: tutto ciò che è accaduto non mi appartiene come essere umano, non ci appartiene come umanità; in ciò che è accaduto non v’è nulla di umano, tutto è "disumano". È l’effettiva presa di distanza da un evento che si vuole definire per antonomasia folle. Appartiene alla follia umana. Salvo poi scoprire, come Arendt e Levi hanno insegnato, che i carnefici che commettevano quegli atti disumani erano persone del tutto “normali” (“banali”, li definisce Arendt), “buoni padri” di famiglia, persone, che, quando tornavano a casa dopo aver eliminato mille o duemila “unità” (perché le vittime erano considerati come pezzi di una grande officina), giocavano con i loro bambini, o leggevano loro le favole prima del bacio della buonanotte.
Dire che tutto ciò non mi appartiene perché ha in sé qualcosa di disumano che a me come umanità m’è completamente estraneo è un modo per lavarsi la propria coscienza. Tributare un omaggio alle vittime e dimenticare i meccanismi sociali che hanno portato al compimento dello sterminio significa far un ennesimo torto alle vittime in primo luogo, e a se stessi, in secondo luogo. Poiché alla fine, secondo me, è tanto importante ricordare come un uomo diventi carnefice quanto avere memoria della vittime. Sottolineare questo significa sapere che dietro ogni angolo della storia può nascondersi un carnefice pronto a colpire le sue vittime ignare.

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