Ho
sentito una volta parlare di un’insegnante che “amava” portare i suoi studenti
a tutti gli eventi dove si commemorasse la Shoah: convegni, incontri,
presentazione di libri.
Non c’era appuntamento al quale lei e la sua scolaresca
non mancassero. Era un periodo in cui mi stavo occupando proprio del tema della
memoria. Leggevo Aleida Assmann, Elena Agazzi, Enzo Traverso, Régine Robin.
Sapere che una professoressa “obbligasse” i suoi studenti “a ricordare” le
violenze dei nazisti non mi sembrò una buona idea. Proprio Traverso aveva
parlato del rischio di trasformare la memoria, fortemente amplificata dai
media, in una “ossessione commemorativa”, e i “luoghi della memoria” in una
vera e propria “topolatria”: «Così prende forma il “turismo della memoria”, con
la trasformazione dei siti storici in musei e mète per visite organizzate, dotati
di adeguate strutture d’accoglienza (hotel, ristoranti, negozi di souvenir,
ecc.) e promossi presso il pubblico con strategie pubblicitarie mirate»
(Traverso).
Cosicché,
anche l’atteggiamento compulsivo di quella insegnante mi sembrò dettato da
quella “ossessione della memoria”. Intuivo che in quello atteggiamento c’era
qualcosa che non mi tornava, ma non riuscivo a individuare cosa di preciso non
andasse. D’altro canto, mi rendevo conto (e tuttora mi rendo conto) di come,
sfiorare alcuni temi, si corra il rischio di essere decisamente fraintesi. Al
fine di evitare qualsiasi tipo di malinteso dirò che le due letture che più
hanno contato nella mia interpretazione del genocidio nazista sono state La banalità del male di Hannah Arendt e Se questo è un uomo di Primo Levi.
Questi due testi hanno contribuito fortemente a cambiare la mia prospettiva sul
significato di questo crimine orrendo: i due autori, da angolazioni diverse,
“costringono” il lettore non più a
rivolgere la loro attenzione soltanto alle vittime, ma anche e soprattutto
ai carnefici.
La
testimonianza di Levi e il resoconto di Arendt del processo Eichmann mi hanno
fatto comprendere come sia stato possibile mettere in atto uno sterminio dalla
vaste proporzioni. Ciò ha rappresentato per me un vero e proprio
capovolgimento sull’uso che si può fare della memoria. In pratica, concentrando
l’attenzione sulle vittime e sulle loro indicibili sofferenze, alla fine ci si
“dimentica” dei carnefici. Preciso meglio il mio pensiero: focalizzando tutta
l’attenzione sul risultato, ossia sullo sterminio, ci si dimentica dei processi
persecutori che hanno reso possibile quel risultato. I revisionismi storici,
quelli che hanno infine tentato di mettere sullo stesso piano vittime e
carnefici, trovano in questa operazione di oblio/ricordo il loro fondamento. In
fondo, dicono questi revisionisti, siamo tutti vittime della storia. Già, la
“storia”! come se la Storia fosse la personificazione di un’entità malefica che
agisce a nostra insaputa e sulle nostre teste, facendole rotolare di volta in
volta sul tappeto insanguinato del tempo!
L’Olocausto
viene posto in un luogo “sacro”, inaccessibile alla mente di chi vuole
comprendere, in quanto la sua straordinaria follia rimane qualcosa che lo
storico non potrò giammai categorizzare. Ponendo tutto ciò che appartiene alla
storia dell’Olocausto in una sorta di reliquario, viene in questo modo come
“staccato”, “scisso” dalla nostra storia presente. Per cui quando vengono
commessi nuovi stermini, nuovi genocidi sulla terra, giammai possono essere
comparati all’"Olocausto", per non incorrere nel peccato di blasfemia.
La
scissione, dunque, ha la funzione di assolverci per quanto è accaduto.
L’insegnante che porta i suoi studenti nei luoghi sacri dell’Olocausto è come
se dicesse a se stessa e agli altri: tutto ciò che è accaduto non mi appartiene
come essere umano, non ci appartiene come umanità; in ciò che è accaduto non
v’è nulla di umano, tutto è "disumano". È l’effettiva presa di distanza da un
evento che si vuole definire per antonomasia folle. Appartiene alla follia
umana. Salvo poi scoprire, come Arendt e Levi hanno insegnato, che i carnefici
che commettevano quegli atti disumani erano persone del tutto “normali”
(“banali”, li definisce Arendt), “buoni padri” di famiglia, persone, che, quando
tornavano a casa dopo aver eliminato mille o duemila “unità” (perché le vittime
erano considerati come pezzi di una grande officina), giocavano con i loro
bambini, o leggevano loro le favole prima del bacio della buonanotte.
Dire che tutto ciò non mi appartiene perché ha in sé
qualcosa di disumano che a me come umanità m’è completamente estraneo è un modo
per lavarsi la propria coscienza. Tributare un omaggio alle vittime e
dimenticare i meccanismi sociali che hanno portato al compimento dello sterminio
significa far un ennesimo torto alle vittime in primo luogo, e a se stessi, in
secondo luogo. Poiché alla fine, secondo me, è tanto importante ricordare come un
uomo diventi carnefice quanto avere memoria della vittime. Sottolineare questo significa sapere che dietro ogni angolo della storia può nascondersi un
carnefice pronto a colpire le sue vittime ignare.
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