"Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certo modo, di rappresentare".
Così scriveva Kafka nei suoi diari. Ma rappresentare il negativo non equivale, in un certo senso a combatterlo, non è l'unica maniera che al poeta rimane di essere partecipe del proprio tempo per svelarne i mali?
Il tempo successivo s'incarica di lenire la rappresentazione del negativo, immergendola in un universo pacificato, dove l'inquietudine e l'angoscia del vivere quotidiano diventano categorie dello spirito, buone ad essere discettate nei programmi televisivi d'intrattenimento.Sotto i ferri preziosi dei chirurghi della critica, l'opera di Kafka ha subito un'operazione lobectomica, nella quale la parte più inquietante è stata asportata. Gli oltre diecimila titolo della bibliografia critica kafkiana rappresentano una "muraglia cinese" che impedisce al "profano" l'accesso diretto alla sua opera e gli dànno la sensazione che su di essa tutto è stato detto e scritto. La sua opera è stata sezionata migliaia e migliaia di volte, pertanto nulla si può o si deve aggiungere. Ma la critica si è esercitata con l'opera kafkiana come nel vuoto, perdendo con essa ogni contatto: il critico o il giornalista di turno non vivono nell'inquietudine e nell'angoscia di quell'opera. Trascorrono un'ora della loro vita a scrivere tranquillamente su Kafka e poi, senza esserne minimamente segnati, vanno quella sera stessa a distrarsi al cinema o al teatro.Quell'opera è apparsa come un meteorite nella loro esistenza, come un oggetto con il quale vale la pena di intrattenersi qualche ora, ma che non conviene prendere troppo sul serio. Non vivendo nell'esperienza traumatica di Kafka, costoro non sono neanche capaci di comunicarla agli altri. Si è persa di vista l'originarietà da cui Kafka ha tratto la sua forza e la potenza della sua arte: l'essere stato, egli, uno scrittore diverso da tutti gli altri, uno scrittore che potremmo definire, se ci si intenda bene su questo termine, "visionario".Si potrebbe essere tentati di attribuire a questo termine una valenza magico-ritualistica, legata alla Cabala o all'arte della divinazione. D'altronde, anche la cultura ebraica, alla quale Kafka appartiene, potrebbe avallare tale interpretazione. Ma per noi il termine visionario ha tutt'altro significato. Ho scritto che gli scrittori sono gli sciamani dei tempi moderni, perché capaci di intrattenere un dialogo con le anime dei defunti.La parola ha il potere di evocare dall'Ade le anime defunte. Queste visioni, nell'accezione corrente, sono un privilegio concesso a chi ha un rapporto mistico con la realtà dell'esperienza, per cui esse si presentano come delle illuminazioni che d'improvviso squarciano il velo e permettano di vedere realtà altrimenti impossibile da vedere.Chi ha un tale approccio con la realtà deve trovarsi in uno stato di grazia, o almeno credere di essere toccato dalla grazia. Ma non era questa la condizione che Kafka viveva: "Io non sono stato introdotto nella vita, come Kierkegaard, dalla mano già cadente del cristianesimo, e neppure ho afferrato l'ultimo lembo dileguante del mantello ebraico da preghiera. Io sono una fine o un principio. Quel che a Kafka manca è, appunto, la fede, senza la quale non si può essere toccati dalla grazia. Dalla vita non ci si salva, ma la si subisce come una condanna emessa da un giudice ignoto e senza volto. Alla vita si viene, ma non viene chiesta. Nessuna domanda di vivere. Vive e basta. Ecco allora che dalle visioni kafkiane, cancellate l'afflato mistico-teologico, rimane soltanto il tetro spettacolo della morte.Le sue visioni si caricano non di un messaggio di speranza, ma di un presagio negativo senza alcun anelito luminoso. E il mondo entro il quale Kafka viveva s'avviava ad essere un mondo dove l'atrocità e la violenza gratuite sarebbero divenute leggi dello Stato: "La guerra non mi suggerisce nessuna idea degna di essere comunicata". Quali discorsi sono leciti di fronte ad un evento così sconvolgente? Perché ragionare della guerra è pur sempre un modo di darle un senso e quindi di giustificarla. Ma lo scrittore avverte l'inutilità di questo impegno, in quanto il suo discorso nulla cambia. Kafka presentiva il fatto che la società del XX secolo cominciava ad essere sempre più disumana. L'uomo ha cessato di essere centro e motore della storia. Sempre più siamo controllati da entità il cui senso e la cui ragion d'essere si sono completamente smarriti. Eppure, lo scrittore continua a testimoniare la sua presenza come un'ombra che inquieta l'animo di chi si è rassegnato a vivere.
3 commenti:
Ho l’impressione che, con questo tuo articolo, tu stia randellando un po’ alla cieca. Ho letto qualcosa delle tue considerazioni sulla litweb e ho notato che anche in quella sede avesti qualcosa da ridire sulla funzione della critica, ritenendola cosa sorpassata nello spazio della letteratura cibernetica. Ora ti accanisci non più contro la critica considerata come una funzione, ma contro le persone fisiche che svolgono la funzione stessa. Ma la critica letteraria è morta e sepolta da un pezzo, non dovevamo aspettare la comparsa della rete, ed è morta proprio per l'assenza di critici: ci ha pensato la lunga fase di dominio delle terze pagine delle gazzette e la forma giornalistica genericamente intesa, con le sue ignobili trivializzazioni dei contenuti e il poco spazio concesso alla funzione critica, riflesso del poco tempo a disposizione di lettori sempre più scarsi: una volta scomparsi i Fortini, i Cecchi, i Pasolini è venuto giù tutto. Trovo, inoltre, una generalizzazione che non porta da nessuna parte: Baioni e Mittner hanno scritto su Kafka in modo decisivo, ma non credo che abbiano inteso, nel farlo, rivivere l’esperienza col negativo di Kafka; e se magari una di quelle sere se ne saranno andati ad assistere a qualche concerto, non per questo li possiamo accusare di avere depotenziato e razionalizzato, con l’uso del discorso critico, il negativo contenuto nell’opera kafkiana. Non so tu ma io, leggendo Kafka, ho avuto la sensazione che in lui la componente razionale fosse molto presente, se non prevalente (in fondo era ebreo), e non è detto che il talento analitico debba per forza essere integrato nell’ambito dei meccanismi riproduttivi di una società. Comunque, definire l’impianto mistico della Cabbala un qualcosa di affine all’animismo sciamanico è un rischio, se non un vero azzardo. Le capacità mitopoietiche della parola le vedo di più in un George che in un Kafka. Da professore di filosofia non dovresti rinunciare al potere del pensiero di porre distinzioni.
Credo di aver scritto questa "impressione" almeno trentanni fa. Perciò penso che sia difficile vederci dietro un "disegno". La mia era semplicemente un'impressione di lettore dei "Diari" kafkiani, un'impressione forte, a caldo. Era la sua inquietudine ad inquietarmi, allora come ora. Quel senso di inquietudine che nessuna ragione critica potrà mai cogliere, esprimere, dargli una cifra. Penso che all'epoca quando scrissi questa impressione era a questo che mi volessi riferire.
Io sono in cerca di costanti, non di variabili: le variabili non mi interessano, al mondo ci sono già le donne a sovrarappresentarle, non aggiungiamone di altre. Quindi questo particolare dei trent'anni mi torna buono. A rileggerti.
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