Ho messo mano all’etoanalisi nel novembre del 2003. All’inizio la definivo Teoria dei tratti dominanti, e mi riferivo a sei tipi umani, che indicavo come seduttore, competitore, prevaricatore, e ne descrivevo i rispettivi tipi complementari: l'adattabile, l’adulatore e il sottomesso. Successivamente li ho configurati come modalità interattive complementari, ossia come strategie che un agente mette in atto al fine di affermare o preservare il proprio Sé.
Il “tipo” è una categoria statica. Al contrario, la modalità interattiva è una categoria dinamica. In altri termini, la modalità interattiva può essere configurabile come modus operandi. L’aspetto più importante fu la ricaduta che il passaggio ebbe sul tema del Soggetto: il tipo lo presuppone, invece la modalità lo costruisce, e in quanto lo costruisce non lo presuppone. Cosicché l’analisi del soggetto passò in secondo piano, definendosi sempre più come un prodotto derivato dalla modalità interattiva.
Con il soggetto ho archiviato anche la pratica della “personalità” o del “carattere”, ecc. Mi ero ormai decisamente avviato fuori da ogni ambito psicologistico, al quale, invece, il primo approccio era rimasto ancorato.
Nel momento in cui compii tale capovolgimento, dal tipo alla modalità, non ne valutai completamente tutte le implicazioni teoriche che ne sarebbero scaturite. Si verificò nella mia riflessione una vera e propria rivoluzione teorica e metodologica che mi aprì scenari problematici del tutto nuovi, di cui mi è difficile fare adesso un elenco seppur sommario.
Era come se fossi passato da una concezione dell’universo formato da “stelle fisse” a una visione dell’universo in espansione. Quando penso al concetto di “ambito interattivo” mi sento come rapito da un vortice teorico: intuitivamente intravedo le sue infinite applicazioni anche se so che il tempo, forse, mi concederà la possibilità di esplorare soltanto qualcuna.
E così scrissi una seconda stesura, nel corso della quale coniai il termine “etoanalisi” e dove tentai di approfondire alcuni aspetti delle modalità e le implicazioni pragmatiche che esse comportavano. A quel punto, però, s’impose l’esigenza di chiarire a me stesso molti dei presupposti teorici che avevo lasciato in sospeso.
Ad emergere con sempre più forza ed evidenza, e ad attrarre sempre più la mia attenzione fu il concetto di reciprocità (il cui mio debito di riconoscenza nei confronti di Georg Simmel è ribadito in ogni occasione). A dire il vero, la reciprocità più che un concetto rappresenta una “visione della realtà”, come si sarebbe detto un tempo. Effettivamente talvolta non so neanche io esprimere tutto ciò che la reciprocità implica. Senza dubbio implica una visione duplice del mondo, nella quale ogni volta che si pone qualcosa per forza di cose si pone qualcos'altro.
Pensare attraverso la reciprocità segnò per me la fine di una visione unilaterale e polare dell’essere: nella reciprocità ciò che diventa importante non è l’elemento che entra in gioco, ma come esso si relaziona a un altro elemento e come insieme interagiscono. In altri termini, con essa, attraverso essa si supera ogni concezione in-dividuale dell’essere per porsi in una concezione totalmente duale e bipolare. Quando mi trovo a discutere con qualche amico, mi è difficile spiegare in che consiste questa concezione duale e bipolare dell’essere. Una tale visione dell’essere è talmente radicale nella sua sostanza che talvolta mi è capitato nel corso di questo lavoro di non essere strettamente conseguente nelle sue conclusioni.
Anzitutto, ciò che la tradizione filosofica ha sempre attribuito all’essere delle cose, in realtà è attribuibile alla loro relazione. Per fare un esempio, il concetto di potere o di dominio non diventa un attributo dell’essere, ma un attributo della relazione tra due o più elementi; ma soprattutto, ad essere messo definitivamente in crisi è uno dei concetti più consolidato e indiscusso della tradizione filosofica: il concetto di “azione”. L’idea che gli agenti sociali agiscono è sempre apparsa come una verità indiscutibile, così come l’idea che le azioni siano un’emanazione o una manifestazione del nostro essere individui sociali o soggetti individuali.
La reciprocità mi ha fatto comprendere che in realtà noi non agiamo, ma interagiamo: nello stesso istante in cui un essere interviene nel mondo, egli entra necessariamente in contatto con esso. L’essere in contatto vuol dire che ogni elemento che fa parte di questo universo interagisce con tutto ciò con cui viene in contatto. Ogni atto compiuto ha un effetto di reciprocità.
Da quel momento ho avvertito il bisogno di chiarire soprattutto a me stesso le tante implicazioni che la teoria aveva finito di sollecitare. Infatti, avevo cominciato a tralasciare gli aspetti pragmatici della teoria, da cui la teoria aveva preso le mosse, per focalizzare l’attenzione su una sorta di “antropologia della reciprocità”. La faccenda si faceva sempre più complicata, poiché volevo trattare questi argomenti con il massimo rigore teorico.
Sapevo che non potevo passare all’approccio pragmatico della teoria se prima non mi fossi chiarito il suo aspetto antropologico. Man mano che procedeva nella sua messa a punto, anche l’aspetto metodologico cominciava a rivoluzionarsi: ogni acquisizione concettuale proiettava una luce nuova su tutta la rete concettuale che sino a quel momento avevo elaborato.
In altri termini, ogni volta che mettevo a fuoco un concetto, la sua messa a fuoco provocava degli effetti retroattivi su tutta la rete concettuale. Questa ripercussione era dovuto al fatto che tutti i concetti elaborati stavano tra loro in un rapporto di reciprocità.
La correlazione concettuale mi costringeva ogni volta a precisare meglio un concetto alla luce delle nuove acquisizioni, o a ripercorrere lo stesso problema da una nuova e più avanzata prospettiva. Praticamente ero costretto a ripercorrere lo stesso problema o ad allargare la visione su di esso, ogniqualvolta, precisando un concetto, emergevano altri e diversi punti di vista concettuali. Per un verso ciò era dovuto al fatto che non riuscivo a dominare tutta la sua complessità concettuale, nella quale era sufficiente spostare il significato di un termine per provocare un rimescolamento complessivo di tutta la teoria. Per un altro verso, però, ciò era dovuta a una novità metodologica di cui io stesso non ho preso immediata consapevolezza.
La reciprocità è posta come un principio ontologico, come un presupposto o un fondamento indimostrabile. La reciprocità concettuale mi porta a concepire la realtà dell’essere come un sistema circolare. In questa teoria della reciprocità, ogni concetto si configura come una sorta di “semi” o di “omeomerie”: in ogni concetto sono presenti, seppur in modo implicito, tutti gli altri concetti.
È chiaro che, dati questi presupposti, la mia teoria etoanalitica si propone come una teoria aperta.
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