mercoledì 1 settembre 2021

Il socialismo apollineo di Antonio Gramsci


Il mio interesse per l’opera e il pensiero di Antonio Gramsci affonda le sue radici in anni lontanissimi. Stavo per compiere il mio diciannovesimo anno di età quando nel maggio del 1980 lessi per la prima volta la Vita di Antonio Gramsci di Giuseppe Fiori. L’anno dopo seguii uno sceneggiato biografico in quattro puntate, diretto da Raffaele Maiello e trasmesso da Rai 2. Di Gramsci ho apprezzato immediatamente più che le sue qualità di dirigente e segretario del Partito comunista d’Italia il suo spessore teorico. Nella breve sintesi tracciata da Fiori dei Quaderni del carcere capii che Gramsci non era un pensatore che potesse essere circoscritto esclusivamente nel quadro politico italiano. Al centro della sua riflessione in carcere c’era un nodo teorico fondamentale che investiva in pieno la “crisi del marxismo” come si stava profilando proprio agli inizi degli anni Ottanta.
Per un verso, il pensiero di Gramsci cominciava proprio in quel decennio ad essere una figura “ingombrante” per lo stesso Partito comunista di Enrico Berlinguer. Gli attacchi degli intellettuali “organici”, legati al Partito socialista di Craxi, al concetto di “egemonia” gramsciano cominciarono a far vacillare le virtù taumaturgiche di Gramsci. Se negli anni della Guerra fredda il pensiero teorico di Gramsci era stata “utilizzato” dal Pci togliattiano per tracciare la cosiddetta “via italiana” al socialismo e per prendere gradualmente le distanze dal centro politico dell’Unione Sovietica, sul finire degli anni Settanta, dopo la tragica esperienza del “caso Moro”, che ha segnata la fine del “compromesso storico”, e che ha “frustrato” le aspirazioni della classe dirigente italiana di quella stagione di sottrarsi alle logiche spartitorie decise a Yalta, svanisce definitivamente l’illusione che possa esistere una via italiana al socialismo.
La sinistra ex partito comunista in larga parte si converte al “democraticismo”, non per ottusità, ma perché molti dirigenti di quel partito capiscono in quegli anni che è finita la centralità del lavoro in fabbrica: sono i consumi a dettare le regole e i tempi della politica! E in questa condizione inedita, la sinistra vive un vero e proprio disagio teorico, non sa come muoversi, come agire, e comincia a credere che si possa opporre un argine a questa deriva consumistica alzando le barriere della democrazia. Ma la democrazia può essere una parola vuota se non viene riempita di contenuti politici reali. Eppure, mai come in quegli anni il pensiero di Gramsci era ancora più indispensabile per comprendere la crisi delle sinistre e il corso della storia! Ma occorreva “saperlo” leggere tra le “pieghe”, compito certo né facile né semplice.
Sul finire degli anni Ottanta, sarà un intellettuale, non sempre tenero nei confronti di Gramsci, quale Alberto Asor Rosa a registrare sulle pagine del quotidiano “La Repubblica” una sorta di “declino” delle fortune gramsciane: «A una fase di forse eccessiva fortuna […] ha fatto seguito una fase di sicuramente esagerata eclissi, che è ancora in corso». Ed è lo stesso Asor Rosa a segnalare come il declino delle fortune gramsciane fosse «largamente intrecciato al declino delle fortune comuniste in campo culturale e, in parte, politico». Tuttavia, come auspicava acutamente lo storico e critico della letteratura, l’eclissi del Partito comunista poteva costituire in futuro per Gramsci «un’occasione propizia per studiarlo nella veste di pensatore autonomo» (Il Principe e i poveri, 11 aprile 1987, “La Repubblica”).
Non mancheranno, neanche nei decenni successivi e a noi più prossimi, occasioni di strumentalizzazioni “meschine” del pensiero gramsciano ai fini di una lotta politica contro un’anima della “sinistra”. Mi riferisco al “pessimo” libro di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubettino editore, 2012, un libro settario, privo di intelligenza storica, come scrivo nei due interventi che gli ho dedicato. Ma se talvolta capita di fare i conti con delle miserie intellettuali, per fortuna poi ci sono delle altezze che rincuorano. Parlo di un libro ben scritto, ben meditato, ben documentato, che ho letto di recente, Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo, Feltrinelli, 2018, di Rai Patel e Jason W. Moore: Gramsci è l’unico autore italiano citato. Non significa nulla, d’accordo, ma dopo tante apologie acritiche che si sono lette negli ultimi decenni sul neocapitalismo, ecco finalmente un saggio che fa riflettere sulle conseguenze che tale sistema economico sta arrecando alla sopravvivenza dello stesso pianeta Terra.
Quando ho iniziato le mie prime ricerche su Gramsci, era propria mia intenzione di andare nella direzione auspicata da Asor Rosa, cioè di studiarlo nella sua autonomia di pensatore. Tuttavia, a un pensatore della tempra di Gramsci non ci si accosta mai in una maniera “disinteressata”. Intendo dire che non ci si può servire di quel pensiero come un tecnico si serve delle conoscenze scientifiche, per riprendere un’espressione di Iring Fetscher. Ecco, potrei dire che Gramsci non è un autore “avalutativo”: chi prende in esame il suo pensiero teorico, deve per necessità “schierarsi”, non per essere banalmente “pro” o “contro” quel pensiero, ma nel senso che lo deve necessariamente “valutare”, è costretto cioè a prendere una “posizione” nei suoi confronti. È quanto ho fatto ogni volta che mi sono accostato a Gramsci: dal primo lavoro di tesi fino ai nostri giorni.
All’inizio, avrei voluto intitolare il mio lavoro di tesi: Natura umana e storia in Gramsci, ma l’argomento mi risultò troppo vasto per poterlo affrontare in un lavoro di tesi, perciò, d’accordo con la mia relatrice, Marcella D’Abbiero, decisi di circoscriverlo agli scritti giovanili, focalizzando soprattutto l’attenzione sulla dialettica individualità/socialità. Tuttavia, analizzai quella dicotomia proprio attraverso il rapporto Storia/natura umana, servendomi soprattutto della lente di ingrandimento della psicoanalisi freudiana per tentare di mettere in evidenza come Gramsci idealizzasse le componenti della classe operaia del dopoguerra. Alla luce dei miei studi successivi, posso ben dire di aver “sbagliato” prospettiva. Rileggendo con attenzione i miei “scritti gramsciani” e, di conseguenza, gli scritti giovanili di Gramsci, mi sono accorto di quanto “socratismo” essi contenessero. Detto in altri termini, credo che se oggi avessi intenzione di scrivere un nuovo saggio su Gramsci non lo farei usando la lente freudiana, bensì userei quella molto più corrosiva della Nascita della tragedia di Nietzsche.
In effetti, penso che le tracce ontologiche gramsciane siano da ricercare nel razionalismo etico di Socrate, che si può riassumere in queste sue parole: «Per intenderci meglio, io ho della cultura un concetto “socratico”: credo sia un pensar bene, qualsiasi cosa si pensi, e quindi un operar bene, qualsiasi cosa si faccia» (Filantropia, buona volontà e organizzazione, 24 dicembre 1917, in CF, p. 519). Prese di posizione di questo genere bisognava esaminarle sul serio e fino in fondo. Gramsci credeva davvero che l’individuo fosse padrone dei suoi pensieri e della sua volontà: «Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi» (in CT, p. 102). E, in un altro articolo, scrisse: «Gli uomini combattono contro la natura e contro una parte di se stessi per essere sempre più liberi, sempre più padroni della loro volontà e dei mezzi per realizzarla» (Il tramonto di un mito, 22 dicembre 1917, CF, p. 504).
Gramsci credeva che nella storia agisse una struttura razionale che guidasse l’umanità necessariamente a vivere in un mondo migliore rispetto a quello in cui s’era vissuti, e che l’uomo potesse dominare la sua natura. Questi due presupposti metafisici lo hanno condotto a idealizzare non solo il divenire storico, ma anche la classe operaia in sé. Intendiamoci, non è che questa visione metafisica dell’essere appartenesse soltanto a Gramsci; c’era tutta la cultura ottocentesca invischiata in tale visione, e io credo che sia proprio la sua presenza ciò che ha impedito di scorgere e di comprendere le tragedie storiche della prima metà del Novecento. Pensare che la storia non abbia nessun senso e nessun fine, che il processo della storia, in altri termini, non realizzi quella marcia inarrestabile verso il progresso, per quella cultura, impregnata di questa visione ottimistica dell’essere, sarebbe stata semplicemente un’idea assurda. Può sembrare anche giusta l’idea che un combattente politico debba aver fede nel progresso della storia, ma ciò non toglie a questo atteggiamento il suo aspetto illusorio.
Insomma, Il socialismo apollineo di Antonio Gramsci è depurato da ogni impulso dionisiaco. Ecco, credo che questa doveva essere all’epoca la traccia della mia ricerca, e, forse, questo è il titolo più appropriato che oggi posso dare a questi miei scritti gramsciani. Sul valore e sul contributo che essi daranno alla critica gramsciana non mi pronuncio. Forse non contengono questi scritti gramsciani aspetti del tutto originali, tuttavia, il paradigma meccanicismo/organicismo, così come l’ho esaminato nel saggio Gramsci: il teatro come allegoria della fabbrica dei produttori, meritava una qualche menzione; è un saggio che ho pubblicato su una rivista online, ma non ha avuto nessun seguito. Non era originale soltanto dal lato del contenuto, ma soprattutto della metodologia, come ognuno potrà notare se e quando avrà voglia di leggerlo.

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